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2 settembre 2020 3 02 /09 /settembre /2020 02:58

Modello sanitario globalizzato, razionalizzazione funzionale per la diffusione di  un nuovo modo di produzione capitalista digitale che tagli di netto le capacità sociali di lavoro, sterilizzando così aggregazione e conflitti sociali. Come la sinistra storica ha abbracciato negli anni novanta i modelli liberisti e le nomenklature europee di controllo, così quei rottami politici che sono le organizzazioni che un tempo erano riferimento dei lavoratori lasciano una grande questione in mano alle destre. Trump, Bolsonaro e Salvini con ondivaga continuità sono diventati anche i riferimenti delle classi popolari strangolate dalle scelte politiche ed economiche che colpevolmente sono state indicate da sindacati e partiti revisionisti. Questi ultimi hanno sposato le ricette in grado solo di creare aumento della disoccupazione, peggioramento dell'idea e del valore lavoro, nuovi processi di accumulazione che hanno consentito una disparità mai vista nella storia fra chi controlla i mezzi di produzione e chi li subisce. Questi traditori del proletariato, come il PD, e altre forze legate mani e piedi ai dispositivi imperiali della guida mondiale impersonate da Nato-Ue e Israele, sposano senza discussione la nuova trasmutazione di valori del capitalismo che cerca nuovi consensi per far trionfare una nuova capacità di controllo e razionalizzazione del sistema. Come sempre accaduto il capitalismo si rigenera nei suoi valori accessori e mantiene saldo il principio sul quale è nato: incremento del capitale attraverso l'incremento dei profitti, lotta senza quartiere per la concentrazione di risorse e per il controllo sociale e produttivo. Frantumate le forme Stato (quelle democraticamente controllate) attraverso la muscolarita' ipertrofica delle multinazionali, capaci di avere risorse e capacità produttive superiori ad uno stato europeo, capaci di avere eserciti in armi di contractors e di battere moneta, adesso arriva il nuovo salto di qualità. Ad ogni crisi le strutture profonde che gestiscono potere e presidiano i nodi decisionali dei dispositivi  occidentali (ma vale anche per la Cina con caratteristiche sempre più capitaliste) colgono l'occasione per restringere le libertà sociali e di relazione soprattutto nell'ambito del lavoro. È stato così per il terrorismo, è così per la nuova religione sanitaria. Non sono in questione norme di opportunità o di intervento rispetto alla pur grave pandemia che ci ha colpito (ma non più letale di certe patologie endemiche, quali malattie cardiovascolari e tumori, effetto spesso delle condizioni di produzione accettate da tutti). Si discute di un nuovo modello produttivo asociale, caratterizzato dal confinamento individuale che deve renderci animali da produzione dediti al lavoro e all'isolamento. Si snatura la vita stessa e la capacità di reazione sociale. Si tratterà di gestire il cambiamento produttivo in corso, come accaduto nei secoli, con l'inevitabile fine e scomparsa di modelli, aziende e dispositivi,  sostituiti da altri. Una trasformazione i cui costi, come annuncia il capo di Confindustria, verranno pagati dai lavoratori con maggior precarietà e licenziamenti e che avranno un effetto sulle risorse sociali con l'ulteriore proletarizzazione delle professioni e delle intelligenze. 
   In questo quadro i valori della nuova religione sanitaria servono a creare consensi, proprio perché la religione tradizionale e la fede sulle sorti progressive e illimitate del sistema (per effetto anche delle riflessioni sull'ambiente e sulla salute del pianeta terra) non creano più fiducia. E allora serve una nuova guerra di religione. Si creano contrapposizioni fittizie fra schemi imposti, no vax contro si vax, probi cittadini contro negazionisti. Chi riflette sulle problematicità di vaccini da imporre a tutti senza verificare storie cliniche personali, chi eccepisce verso provvedimenti draconiani suggeriti da nuovi sinedri tecnico-scientifici che violano ogni libertà, chi assiste indignato alla mancata sepoltura dei propri morti, una ferita che non veniva inferta ai valori comunitari fin dai tempi di Antigone, viene etichettato dall'informazione compiacente come negazionista. Tutti nello stesso mucchio, servono crociate non confronti, proprio come fosse una guerra di religione. Questa contrapposizione fra estremismi è indispensabile per l'affermazione rapida dei nuovi valori che sostengano il nuovo modo di produrre che il capitale ha bisogno di insediare. Internet ha una grande funzione reazionaria e consente la cruenta sfida recitata, come in un match di wrestling, fra buoni e cattivi. Si creano così soldataglie di idioti civici che trovano sempre più proseliti specie nelle psiche frustrate di ex rivoluzionari. Nessuno sembra avere interesse ad aprire un dialogo o a discutere della funzione e dei problemi che crea alle comunità questa nuova religione sanitaria. Nessuno pone dubbi e domande. Non si affrontano legittimi problemi di madri, padri e figli, su scuola, salute, crescita, educazione, trasporti, sport e vita comune, ma si branduscono le immagini degli intubati e le cifre più o meno artefatte, a valanga e senza criterio. Come negli scontri contro gli eretici protrattisi  fino al Seicento (mentre l'economia mercantilista assumeva le forme Stato nazionale di dominio) si minaccia il rogo, si inviano sanzioni contro chi dissene o chi fa domande e si pone dubbi. E gli idioti civici a sostegno di questa colossale caccia alle streghe. 
  In questo contesto si lascia alla destra più bieca e individualista l'uso politico di queste istanze di domanda più che di rivolta. Che ne sarà del nostro futuro, che società verrà disegnata con questa nuova ideologia sanitaria? E così, come tanti lavoratori sono stati spinti dalla miopia o dal tradimento di certi dirigenti della sinistra storica  tra le braccia dell'"ultradestra, così assisteremo, come nella grande manifestazione di Berlino, ad un fraintendimento ipocrita contro chi protesta. A prescindere. E vediamo i finti rappresentanti di una cosiddetta amalgama di valori libertari schierarsi ad abbracciare le ricette del nuovo capitalismo tecnocratico che lavora al servizio delle élites dominanti contro chi ha qualcosa d'altro da dire. Anche solo volesse esprimere un malessere. E così un'altra occasione storica per riflettere sulla natura antiumana del capitalismo verrà dissipata. Questi rappresentanti del pensiero liberale sono da spazzare via come la destra, sono l'altra faccia della stessa matrice che lavora alla perpetuazione del dominio del capitale sull'uomo.

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16 agosto 2020 7 16 /08 /agosto /2020 18:46

Imporre il vaccino, ma quale? Litigano su tutto: su quello russo, su quello americano, su quello italiano. Quale è buono, quale non funziona, quale procura danni, quale efficace?
Cuius regio eius religio, ogni regno avrà il suo vaccino, come accadde dopo la Pace d'Augusta del 1555 quando cattolicesimo e protestantesimo si accomodarono in base alle scelte dei Principi che ne garantivano (ex legge)  la ortodossia, come ora i governi garantiscono i proventi e la validità ai vaccini di ciascun regno. Forse non ha tutti i torti Agamben: la sanità  sta diventando una religione come parte di quella grande ideologia scientista che affila le armi migliori per sostituirsi e intrecciarsi alla religione propriamente detta e al grumo valoriale del profitto, contro i quali lotta o viene a patti. È accaduto nel sistema mercantile dal 500 a oggi, continuerà domani. Il capitalismo rinegozia i propri valori quando non sono più sostenibili. L'importante è che la struttura tenga nei suoi tratti caratteristici: l'ideologia caratteristica di ogni nuovo momento produttivo, alla fine, si scoprirà collante per il mantenimento del sistema.

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28 giugno 2020 7 28 /06 /giugno /2020 15:08

Pubblicato su Il Corriere dello sport 28-06-2020

 

In principio fu Dario Bonetti. Una rivoluzione. Nel marzo del 1986 Silvio Berlusconi strappò alla Roma il difensore che continuò a giocare in giallorosso dopo l'annuncio del neo presidente, destinato a cambiare tante altre abitudini in Italia. Ora, giugno 2020, parliamo di Arthur Melo e di Miralem Pjanic, il primo dal Barcellona alla Juve, il secondo dalla Juve al Barcellona: si firma ora, si giocherà a settembre. Sembra uno spot, è la realtà. In mezzo c’è tutto, scudetti e Champions. È il tempo in cui un cambiamento si realizza a renderlo eclatante. Quante volte, anche negli anni ruspanti del calcio mercato, la consapevolezza differita di un acquisto ha comportato spaesamento e richiami alle virtù? Chi gioca per una squadra onori fino alla fine la sua maglia. Sembra la traduzione di una sentenza latina. Il grande Giuliano Sarti venne travolto dalle
polemiche per quell'errore che da interista consegnò la vittoria al Mantova nell'ultima giornata del campionato 1967-'68 e lo scudetto alla Juve alla quale, si mormorava, era già stato ceduto e con la quale giocò dalla stagione successiva.

I greci chiamavano Kairos il tempo che sfugge all'indifferente scansione del Cronos. Quell'attimo, il Kairos (breve o infinitamente ampio che sia) dove tutto cambia. Il mercato del calcio così a lungo dilatato porta con sé paura, ansia e richiami all'etica. Che succederà a Pjanic neo blaugrana ma juventino fino a fine stagione e a Arthur neo bianconero, ancora centrocampista dei catalani? Ne vedremo delle belle se Sarri e Setien eliminassero Lione e Napoli e se si incontrassero nelle Final Eight di Champions. Forse niente di così grave rispetto all'imbarazzante situazione che coinvolse Inter, Lazio e Stefan De Vrij il 20 maggio del 2018. Già interista giocò da laziale la gara che poteva comportare la qualificazione in Coppa per la stagione successiva di una delle due squadre. Andò tutto bene all'Inter che raggiunse la qualificazione. E, perdendo, l’olandese, la conquistò.

Ci si appella al principio di responsabilità, quello codificato da Hans Jonas: ogni nostro gesto avrà conseguenze. Questo accade soprattutto nelle società tecnologiche, dove un gesto lascia il segno. E cosa è più tecnologico di un calcio che dilata le stagioni per salvaguardare campionati che altrimenti sarebbero stati cancellati? La responsabilità è capire che un gesto sbagliato guardando al dopo anziché all’ora può mettere in difficoltà il sistema che ha creato, come nel mercato prolungato, la soluzione tecnica alla grave crisi di quest’anno. È questa la responsabilità che, in tempi di nuovo eccezionali, si chiede a tutti: anche a Pjanic e a Arthur .

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7 giugno 2020 7 07 /06 /giugno /2020 23:19

Che fatica far giocare l'Inter del 2006-2007 contro quella del 1964-1965! Dice un professore d'arte interista: è come contrapporre Raffaello a Giotto. Raffaello e Mancini, due grandi marchigiani, imposero la loro “maniera”, in un’era di titani, popolata dai Leonardo e dai Michelangelo. Ma Giotto fu un'altra cosa: dopo di lui tutto cambiò. E allora giochiamo sul serio: Giotto non sta alla pittura come Herrera al calcio? Il “libero”, il “catenaccio” e il “contropiede” non traducono in qualche modo la spazialità e la prospettiva dalla tela al campo di gioco? Pittura e calcio disegnano soluzioni nelle rispettive cornici, evocano mondi e valori. Quelli di Giotto sono finiti nella Divina Commedia, quelli di Herrera nei sogni di milioni di interisti che hanno atteso decenni (anche oltre Mancini) prima di tornare alla devozione di un Trittico o di un Triplete.

Il Mago centrò Intercontinentale, Scudetto e Coppa Campioni, ma, si dirà, anche Mancini ruppe un grande digiuno. Fino a che punto, quindi, reggerà il mito del 1965? Nella storia vincono i nani sulle spalle dei giganti. Ma qui è sfida tra colossi che rifiutano vantaggi. Anche se, in effetti, nel 2006 il calcio è diventato potenza, meccanismi, tecnica e velocità. Nel caso dell’Inter del 2006- 2007 anche passione di artigiano: «Il vero allenamento è una partita», diceva Mancini che ha una bottega piena di moderni ritrovati.

Il segreto di un orologio è che cominci a funzionare e così cresce il ritmo della macchina da gol con Ibrahimovic, Cruz o Crespo. L'allenatore è stato campione e il suo intuito precede le tabelle: nelle accelerazioni Cruz (7 gol) è tra i più veloci, Ibra (15 gol) prepotente e fatale. Crespo micidiale (15 gol). Supercoppa italiana, scudetto con 5 turni di anticipo e i 97 punti ci dicono: sta per vincere Mancini.

Massimo Moratti, arbitro imparziale e affettuoso, è prudente: «Aspetterei l'esito del duello fra Guarneri e Ibrahimovic, due grandi atleti, potenti e leali». E se la difesa del 2006- 2007 con Cordoba, Samuel e Materazzi (che si alternavano) è straordinaria, quella di Herrera si trasfigura in orazione: “Sarti, Burgnich, Facchetti”... e Picchi «unico calciatore schierato a zona». Il contropiede è verbo, Herrera si infuria al quarto passaggio. «Ne bastano tre per arrivare in porta, il resto è troppo». Ma nell'era delle distanze minime, dove l’intensità fa la differenza, come potrebbe vincere la squadra del 1965 contro quella di Mancini? Se il celestiale Mozart si contrapponesse sull'Oceano al pianista funambolo che accende la sigaretta sulle corde percosse, a chi andrebbe la sfida con quelle regole? E che ne sarebbe di Joe Louis se avesse valicato il tempo e sfidato Mike Tyson, quando l’orco di Brooklyn, in una frazione delle cinque sedute giornaliere, faceva duemila squat? Guai, però, a sottovalutare il potere antico della velocità.

«La squadra di Herrera ti stendeva all'improvviso, tanto che la accusavano di privilegiare la rapidità alla qualità», ammonisce Moratti. I lanci di Suarez sono laser, le incursioni di Jair o Domenghini vento, le sponde di Peirò e le invenzioni di Corso fulmini. E, allora, come finisce? Sediamoci e ascoltiamo Brahms o, meglio ancora, Ravel, dove la struttura è accurata, il meccanismo è pulito, pieno di colore e la tensione è costante, un fuoco reso trasparente da forme cristalline: è la squadra di Mancini. Ti conquista con una sensualità di concetto, grazie alle simmetrie di Vieira. Ma all’improvviso ecco Chopin, una delle sue magnifiche Ballate. La “coda" è spietata, piena di pathos. Condensa tutta l’energia accumulata e, in una zampata, conclude il poema: 1-0. Al 90’ ha segnato Jair.

 

Pubblicato su "Il Corriere dello Sport-Stadio" il 20 aprile 2020

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3 giugno 2020 3 03 /06 /giugno /2020 14:53

All'improvviso qualcosa cambiò. E fu un nuovo inizio. Chi si è inginocchiato in campo nelle ore successive la morte di George Floyd per ricordare i fatti di Minneapolis è stato sanzionato. Da ieri non più. Calcio e politica restino lontani, ammoniva finora la Fifa. In un certo senso a ragione: c'è da proteggere un patrimonio; un grande campione mentre gioca non deve essere sfruttato da nessun tipo di propaganda (escluse quelle commercialmente garantite dal sistema, verrebbe maliziosamente da aggiungere). E comunque distinguere fra propaganda buona e quella cattiva sarebbe troppo rischioso.
  Ma dove c'è un Creonte, nasce sempre un Antigone. Da lunedì non si contano più: hanno sfidato ogni reazione. Quando una regola viola una legge morale e un fatto straordinario impone un comportamento straordinario, allora qualcosa cambia. Il calcio così riscopre di appartenere al mondo. In modo diverso da come si era abituato placidamente e tecnologicamente. Il calcio, oltre ai numeri dell'economia, infatti, mette in circuito in prima istanza dei valori: la leale competizione, il sentimento di fratellanza che spinge atleti a sfidarsi partendo dalla pari dignità. La stessa Fifa ha sostenuto ovunque e nel tempo campagne contro il razzismo. I fatti di Minneapolis hanno però infuso in un corpo vivo quelle intenzioni spesso rimaste incastrate fra le lettere dei proclami per i quali l'odioso aggettivo "buonista" in qualche caso è sembrato opportuno. Ora un mondo intero si solleva, lo sport s'indigna e si vede. E i campioni non si nascondono, anzi si mostrano, come a Berlino nel 1936, a Città del Messico nel 1970 e oggi, con un mano, un pugno o in ginocchio.
  E' significativo, ma fa riflettere, che questo sia accaduto anche in Italia. Fra tante reticenze e balbetti ci siamo affrancati da una stagione cupa in cui il razzismo espresso in qualche modo da certi gruppi di tifosi è stato trattato con troppe sofisticherie e distinguo obliqui. Fino a che una durissima presa di posizione da parte della Lega calcio ha rotto il fronte dell'ambiguità. E a tutti è sembrato un gran passo avanti. Atteso però alla prova dei fatti. Pensare che il problema non ci sia più perché gli spettatori sembrano destinati a restare fuori dagli spalti non sarà certo una vittoria. Come quando qualcuno immaginò di togliere il volume all'odio. Resta da sperare, anche in ginocchio, che il fronte antirazzista così compatto fra calciatori e dirigenti in questi giorni di lutto e furore, resti tale anche un domani. Quando il velo nero della discriminazioni tornerà ad avvicinarsi a molto meno dei 7500 chilometri che ci separano da Minneapolis.

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17 marzo 2015 2 17 /03 /marzo /2015 14:04

Abbiamo bisogno di storie. Forse neppure grandi. Ma abbiamo bisogno di storie per rifondare la società. Questo si ascolta con molta insistenza da alcuni anni. Il termine “narrazione” è diventato di moda anche fra i politici per indicare i valori ai quali dobbiamo far riferimento, descritti, però, in forma di racconto. Questo termine ha ceduto il passo all’anglicismo storytelling che si riferisce più che altro all’applicazione dell’idea della narrazione.

 

 

Anche lo sport cerca le sue narrazioni. Anzi, in realtà è stato da sempre il vero compito di tutta la cronaca sportiva che, di fatto, è la ricerca di una narrazione. Anche le esigenze di mercato, i motivi di spettacolarizzazione degli eventi, dalle nuove tecnologie per la ripresa dei fatti di sport, le formule di gioco, avvengono sempre modellando i propri prodotti (quello che si racconta o quello che si organizza) secondo i principi dello storytelling. La Champions League, ad esempio, è stata rifondata perché si aveva in mente una narrazione capace di creare una suggestione eroica in un Olimpo sportivo d’eccellenza, persino la crisi dell’informazione passa attraverso la difficoltà di conciliare i tempi dello storytelling con la rapidità con la quale è necessario fornire la descrizione dell’evento (e la televisione risponde con una realtà aumentata dalla forza della tecnologia che rende ogni immagine una narrazione fulminea). L’evento stesso, poi, si è fatto addirittura auto-narrante con i post dei protagonisti sui social network o con i selfie, come nel caso di Totti dopo il suo secondo gol all’ultimo derby tra Roma e Lazio, esempio folgorante di storytelling.

 

 

 

Ma le buone storie sono fatte anche dal buon linguaggio. E qui comincia la difficoltà. Il linguaggio dello sport, finora infarcito di retorica o di luoghi comuni, stenta a cedere il passo alla sobrietà e alla padronanza degli strumenti espressivi. Non solo: tutti i richiami, sia i titoli, i lead, le immagini o gli spot (tanto per variare da mezzo a mezzo di comunicazione), restringono la capacità di articolazione. Questo significa che si preferiscono, ad esempio, titoli di poche battute, slogan che fatalmente risultano ripetitivi in cui, è anche il destino del giornalismo politico e di costume, prevalgono situazioni riassunte con termini standard estremi, come se alzare i toni permettesse di essere ascoltati con più attenzione. Una dichiarazione, perciò, è sempre “choc”, un ammonimento “gela” sempre il proprio interlocutore, ogni difficoltà è “ crisi”, ogni incontro diventa “un patto” per qualcosa. Spesso accade così anche con le immagini. O con i commenti che le accompagnano in televisione. Così la narrazione si perde, tutto diventa ugualmente urlato e persino le buone storie finiscono per essere soffocate. Restano quelle cattive: i dirigenti che sono al potere da anni, gli accordi sottobanco o le telefonate inconfessabili (che di tanto in tanto vengono fuori), i rapporti sempre meno trasparenti e più remunerativi fra aziende, club, manager e associazioni e poi la finanza, se non il riciclaggio, che vogliono conquistare società sportive o snodi di potere. Esiste quindi un fare e un rappresentare che nel calcio, ma anche nella società e nella politica così contaminata da scandali, procedono in modo parallelo e non si incontrano. Se la narrazione è povera nel linguaggio e nei contenuti perde il suo valore pedagogico e si ingolfa, il modello valoriale che richiama si annacqua e diventa inefficace. Così si lascia spazio alle piccole trame e alle cure dei piccoli affari i quali, però, hanno una propria efficace narrazione, ad esempio nelle carriere dei piccoli e grandi despoti dello sport, ciò che Nietzsche chiamava abilità e miseria dell’ultimo uomo.

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10 gennaio 2015 6 10 /01 /gennaio /2015 00:11

C'è un Islam che nel nome del Profeta disprezza la vita e il mondo. E risolve ogni questione della mondanità nella testimonianza. Si testimonia un mondo che verrà. Che non è questo. Di qui il disprezzo della vita propria e altrui, valore tanto misero se lo si confronta con la affermazione della propria fede. In Occidente è stata una questione centrale in alcune epoche e ha investito la riflessione di teologi e filosofi. Una questione, quindi, che non abbraccia solamente l'Islam. Anzi questa sorta di annullamento ha avuto antecedenti che Georg Hegel è stato in grado di riferire sia alla tradizione giudaica che a quella cristiana attraverso la famosa figura della Coscienza Infelice. In questa figura l'uomo scinde la propria autocoscienza: da una parte il singolo, il mutevole, radicalmente diverso dall'immutabile, il Dio. Di qui la disperata aspirazione alla riconciliazione e a considerare inessenziale tutto quello che si riferisce al mutevole, cioè al mondo. All'opposto la verità è nell'Immutabile. La scissione tra i singoli e l'Universale, tra gli uomini e il Dio si fa via via profonda, la fessura diventa faglia e la ricerca del raggiungimento dell'immutabile si rivela tragica. Alla fine, afferma Hegel, alludendo alle crociate, il disprezzo della vita terrena e la guerra feroce combattuta verso i miscredenti, nome per un simbolo, trova soltanto un "sepolcro". Verrebbe da dire che il Santo Sepolcro sta alle crociate come il dominio planetario di un nuovo Califfato alla Jihad.

La civiltà cristiana non si è affatto liberata da questo retaggio se consideriamo che certe tesi contrarie erano considerate minoritarie nella Chiesa preconciliare, che organizzò autentiche crociate contro il "modernismo". E tesi di un certo tipo sono considerate ancora adesso fondamentali da molte mariologie, come alcuni inviti alla testimonianza e alla conversione irradiati anche via etere da alcuni pulpiti ormai cult.

Ma come sia pericolosa l'indifferenza al mondo e la scarsa attenzione per la vita concreta vissuta dai singoli (preferendo piuttosto santificare o demonizzare la vita dei singoli per gloriare il dio di riferimento) lo denuncia con forza un teologo tutt'altro che progressista (è il teologo d'elezione di Joseph Ratzinger), Romano Guardini (1895-1968). Guardini è stato un geniale (filosoficamente parlando) difensore della tradizione cristiana, ma teologo attento ai pericoli che può generare la sottovalutazione della mondanità in nome di uno schiacciante primato dell'ultraterreno. Aggiungiamo noi: a prescindere che l'Al di là sia simboleggiato dal Dio tomistico oppure mistico-medievale o dalle vergini promesse in dono ai jihadisti di oggi.

Guardini rileva, nei suoi ultimi anni, il limite nella concezione medievale che ha attribuito al mondo (il "creato" per lui) un’irrilevanza di senso. In una lettera del 13 agosto 1963 a Josef Weiger, poi titolata “La responsabilità nei confronti del mondo” si ricorda come nel Medioevo il mondo stesso non era considerato un impegno cristiano. Era il luogo assegnato per l’esistenza. Sì, c’erano anche degli obblighi sociali e politici (rispetto ai re, attraverso la gerarchia cavalleresca), ma il mondo non era un oggetto della responsabilità cristiana. Guardini muove una critica alla coscienza cristiana tipo e alla relativa teologia che si è finora espressa più o meno così: Dio è olimpicamente posto sopra al mondo, ha creato il mondo e lo ha poi abbandonato a se stesso. Visto che il peccato si insinua nel mondo, Dio assume un atteggiamento di diffidenza e quindi anche l’atteggiamento cristiano è retto da diffidenza e cerca di staccarsi il più possibile dall’impegno terreno. Al massimo interviene per indurre (o si pensa che intervenga per indurre) la sconfitta del peccato attraverso l'affermazione dei suoi simboli (stessa cosa del jihadismo). Guardini ammonisce i cristiani: se così fosse, però, resterebbe fuori questione il tema del perché Dio si è invece impegnato per salvare l’uomo nell’incarnazione. Poteva Dio elargire, nella Rivelazione, come un sovrano, il perdono? E questa poteva essere una progressiva illuminazione? Ma se il mondo non conta “perché questo spreco enorme dell’Incarnazione?”

Invece l’Incarnazione è il compimento dell’opera di Dio. Sì, certo, tra uomo e Dio c’è l’abisso del peccato. Ma il peccato è storia di Dio e del suo dolore. Ogni svalutazione del reale che significa svalutazione dell’impegno religioso nel mondo, concetto centrale, ad esempio per Guardini, nell’ermeneutica di Hölderlin (dove però manca totalmente l'aura della Rivelazione). Ma la svalutazione del reale, secondo Guardini, ha proprio l'apice nel pensare medievale. Qui c'è il compimento del tradimento di quel numinoso (concetto che avrebbe bisogno di una lunga spiegazione e che è mutuato dal grande studioso di religioni, e teologo Rudolp Otto - 1896-1937, quasi coetaneo di Guardini, che si identifica nello smarrimento arcaico e classico di fronte a qualcosa che incute terrore e che prepara il bisogno religioso). Per questo lo spirito religioso di Guardini mette in guardia tutti i cristiani: nel varco lasciato aperto dalla svalutazione del mondo (e dalla capacità del mondo di evocare lo spirito religioso) si può aprire - secondo Guardini - , quel prometeismo che proclama “la sensibilità [...] separata da Dio" e che affermerà un "puro” mondo e un “puro” e “semplice” uomo”. Ecco perché, forse intuendo questo pericolo, proprio in queste ore, leader politici e religiosi musulmani, tanta parte dell'Islam si richiamano ai valori universali della vita e affermano (Nasrallah) "il jihadismo è più pericoloso della blasfemia": Essi vedono dietro l'abisso jihadista la vertigine nichilista. Dopo i massacri, del loro Dio, in terra non resterà nulla. Sia per chi i massacri li ha compiuti, sia per chi li ha subiti. E questo, in ultima analisi, fu l'effetto devastante della Shoah sulla teologia ebraica e la drammatica soluzione filosofico-teologica alla quale venne costretto Hans Jonas dopo Auschwitz. Ma questa comincia ad essere un'altra storia.

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21 aprile 2014 1 21 /04 /aprile /2014 05:57

Appunti in libertà

E' fuorviante l'dea della morte dell'arte. Dobbiamo piuttosto riflettere sull'idea della morte del "concetto" nella nostra società. Ho usato in questo incipit una sineddoche. Non alludevo alla resurrezione dell'arte, che si trasforma e vive sotto altre dimensioni. Ciò che prende forza, ed è fuorviante affermare il contrario, è il giudizio estetico di cui l'arte è una forma particolare. Mentre, d'altrocanto, fatica a sopravvivere l'idea di un "concetto" da applicare alle condizioni di vita. Il "concetto" appartiene a quell'idea del mondo per il quale ad una determinata idea corrispondono forme di applicazione più o meno efficace. Il concetto deve, però, vivere nel concreto e se, hegelianamente parlando, si incarna in toto, produce il compimento: l'Assoluto. Nella storia ci siamo andati vicino. Hegel (che tra l'altro aveva parlato di morte dell'arte, in quanto esaurita l'idea-concetto che ne muoveva l'azione) descrisse come noto l'incedere dialettico del concetto. Cosa resta di questa feconda attività?

Si sta chiudendo un'epoca in cui i concetti non si sono ben adattati alla vita. Il progetto della vita cristiana, socialista, comunista o i progetti innervati di altri valori non hanno conquistato il mondo. I concetti possono anche funzionare in sè. Possono persino risolvere fondamentali problemi d'interpretazione della vita, della storia, delle relazioni economiche e sociali. Ma non sono prescrivibili come tali, visto che, alla fine, non vengono accettati coerentemente e non risultano efficaci.

L'uomo comunista o l'uomo cristiano ha avuto splendide interpretazioni. Ma si è trattato di solisti. Non abbiamo avuto la possibilità di stabilizzare una società comunista, una società cristiana. Sopravvive quell'ibrido che, all'interno della società capitalista, coniuga l'individualismo con una gestione sempre più controllata dei bisogni e delle risposte ai bisogni.

In questo contesto ciò che emerge come fattore dominante è la dimensione estetica. La nostra società si articola e trova la sua dialettica attraverso criteri di scelta dettati dal gusto, Per lo più un gusto indotto, ma è il criterio di gusto che si forma dentro di noi a far dire "mi piace" e "non mi piace". E' il criterio di gusto che ci fa scegliere, in base ad una valutazione che raccoglie le spinte di una società, la quale ci propone criteri di apprezzamento da accettare e rifiutare. L'uomo di oggi è stato espropriato del concetto, ma ha esaltato il suo criterio di gusto. L'uomo di oggi non è solo l'uomo estetico, è quello che trova già risolte le pratiche complesse dell'approssimarsi ad una scelta di gusto.

Siamo facilitati da una tecnica che ci risolve tutto il complicato cammino prima del fatidico, "apprezzo", "scelgo", "mi piace": facebook è il protocollo più esplicito di questa forma di espressione che è anche una modalità di relazione sociale e sancisce la determinazione dell' appartenenza. Essere amico di, vuol dire creare una comunità sulla base di un gusto, quello di chi sostiene che un determinato argomento piace o no. Appartenenze revocabili. Si toglie l'amicizia, come la si è concessa. In questo siamo liberi. Le scelte, però, vengono sempre più standardizzate. E' sempre più difficile inserire nei cataloghi degli argomenti su cui decidere una articolata valutazione che può determinare qualcosa di diverso dall'accettazione o dal rifiuto, soffocando quindi un libero gioco del gusto, e catturando e utilizzando l'unica facoltà rimasta a disposizione nel nostro tempo per l'esercizio della libertà, la facoltà estetica.

Noi siamo in un'era estetizzata, ma l'utilizzo della modalità di adesione estetica crea appartenenze già confezionate a priori. Già determinate. Noi abbiamo solo la libertà di aderire, sgomberato il pericoloso e inservibile dominio del concetto. Quando qualcuno con soddisfazione parla di una società senza più ideologie in realtà ci dice che la nostra società non ha più il concetto. O meglio non è più fondata sulla pluralità di concetti che si sfidano attraverso criteri di legittimità, coerenza o efficacia. Chi parla di concetti fa ideologia. Chi cerca di contrapporsi per affermare una propria visione del mondo, aderisce ad un concetto e quindi ad una ideologia. Quale sia importa fino ad un certo punto. L'importante è che sia allontanato. Siamo tutti dentro uno stesso modulo, chi ne immagina altri è un ideologo da combattere con la stessa determinazione con la quale una volta si combattevano le idee antagoniste. Siamo perciò in una società ricca di individui che rispondono solo in base a ciò che a loro piace. Peccato che quello che dovrebbe piacere o dispiacere sia stato fornito e preparato con cura per sostenere un modello di produzione immaginato e inesorabilmente costruito. In questo modello chi è tecnologicamente adeguato è dotato dei criteri ammessi per aderire o no (chi utilizza altri criteri non conta o è espulso dal consesso del mondo rilevante).

Siamo in un mondo post-ideologico o post-concettuale, estetizzato, conta solo aderire o no. I criteri di valutazione sono stati forniti, in realtà, con un unico concetto risultato vincente, e trasformato poi in una realtà in cui la dialettica dei concetti non è più ammessa. Resta solo il bisticcio di gusto da esprimere sempre più in modalità tecnologica fra ciò che è proposto. Mi piace e non mi piace: la libertà è servita

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5 aprile 2014 6 05 /04 /aprile /2014 04:52

BOLOGNA - Giovedì 3 aprile sul "Corriere dello Sport-Stadio" attraverso un mio articolo è apparsa la notizia che Google era stata multata dal Garante della Privacy per la cifra di un milione di euro in seguito a inadempienze riguardanti la tutela e il rispetto dei dati personali durante la raccolta di immagini per il servizio Street View. Quella mattina i quotidiani on line hanno ripreso la notizia del nostro giornale e successivamente è arrivata la conferma con uno specifico comunicato stampa prodotto dal Garante della Privacy che pure aveva pubblicato l'ordinanza sul suo sito senza però diffonderne il contenuto come fatto poi dopo la nostra anticipazione. Quell'ordinanza era del 18 dicembre. Come mai è rimasta sul sito del Garante senza diffusione adeguata così a lungo? E perché si è deciso di diffonderla solo dopo che un giornale l'aveva intercettata? Pagare e tacere è stata la politica di Google: c'è chi ha sostenuto e protetto questa politica al contrario di quello che si fa in altri paesi come la Francia? Ho provato il giorno dopo l'anticipazione a tornarci e a ragionarci su. Ecco il testo di approfondimento proposto ai lettori del nostro giornale.

Non solo per Balotelli, Wanda Nara o Lapo Elkann. Chi calpesta la privacy paga e in certi casi paga per tutti. Stavolta è toccato a Google, l’azienda che nel mondo possiede la più grande infrastruttura di reti e server e che ha messo a rischio la privacy di ciascuno di noi. Ha versato, qualche settimana fa, un milione di euro nelle casse dello stato italiano per i dati raccolti illecitamente nella prima fase del rilevamento fotografico per il noto servizio Street View.

La vicenda, già curiosa e interessante, come vedremo, si è arricchita di un giallo visto che è stata incredibilmente resa nota in tre fasi. In una prima fase attraverso il provvedimento sanzionatorio rimasto in un angolo del sito del Garante (che non poteva non pubblicarlo), in una seconda fase, ieri mattina (3 marzo), quando il Corriere dello Sport-Stadio, pescando da quel sito, ha diffuso su larga scala la notizia del provvedimento e, infine (e finalmente), nel primo pomeriggio di ieri quando un comunicato stampa del garante rendeva noto quello che era già stato deciso addirittura il 18 dicembre dello scorso anno. E cioè che dal 2010 il colosso americano ha proceduto a raccogliere dati senza nessun idoneo preavviso destinati ad una banca dati dal rilievo strategico e mondiale come quella accessibile con la piattaforma Google Earth. La conseguenza di quello che accadde allora è che, vip o persone normali, in tantissimi, si sono riconosciuti nelle immagini che a lungo sono state disponibili nel servizio messo in piedi dal gigante tecnologico californiano. Di qui l’apertura del procedimento che si è sviluppato in due atti. In un primo momento Google si è “tempestivamente” messa in regola rispetto alle ingiunzioni del Garante, attraverso un’adeguata informazione sul territorio delle attività di mappatura fotografica. In un secondo momento è scattata la sanzione per il pregresso. Il garante ha fatto prevalere un principio secondo il quale l’azienda deve pagare in rapporto alla sua forza economica. Inutile multare di qualche migliaio di euro un colosso da 50 miliardi di fatturato come quello fondato da Larry Page e Sergey Brin: la sanzione giusta è stata perciò valutata in un milione di euro.

Ma ecco la trama del giallo. Google ha pagato senza fiatare. Non si è appellata (il procedimento a quel punto sarebbe stato celebrato dalla magistratura ordinaria offrendo il destro a tattiche dilatorie), ha perciò considerato l’esborso un male minore rispetto alla pubblicizzazione della vicenda, ha poi evitato accuratamente di segnalare quell’ordinanza, datata 18 dicembre, nel suo munitissimo archivio in rete. Tant’è che, se si fossero inserite nel motore di ricerca le parole chiavi “garante” “privacy” “google” fino all’altro ieri non sarebbe comparso nulla in riferimento a questa vicenda. Nella mattinata di ieri poi l’unico link presente rimandava al corrieredellosport.it, con la nostra notizia. Link sospinto dalla indicizzazione del numero di click, che è, di solito, una procedura automatica e perciò non poteva essere corretta perché nessuno a Google immaginava che la notizia sarebbe apparsa proprio ieri. Il Garante, d’altro canto, non poteva non pubblicare sul sito il provvedimento sanzionatorio, ma si è guardato bene per mesi dal diffonderne i rilevanti contenuti. Lo ha fatto soltanto nel pomeriggio dopo che ormai la notizia era dilagata. Perché? Per un approccio diverso rispetto altri paesi europei. Proprio all’inizio di gennaio il garante francese della Privacy aveva sanzionato Google per i meccanismi del motore di ricerca gmail che mettevano a rischio i dati personali degli utenti. La Francia, a differenza dell’Italia, ha fissato il massimo della multa in "soli" 150.000 euro, applicando, però, una sanzione accessoria: la presenza per 48 ore della notizia dell'ordinanza sull’home page di Google Francia. Una garanzia per i cittadini francesi, in nome di un principio di trasparenza che, nel caso di una questione come la privacy, deve essere parte fondamentale di ogni pronunciamento. In Italia non esiste la possibilità di imporre a Google la pubblicazione di alcunché sulla sua home page, ma almeno su quella del garante della Privacy dal 18 dicembre a ieri, poteva certo apparire qualcosa. Perciò, per avere lo stesso trattamento dei cittadini francesi, ai cittadini italiani è stato necessario il Corriere dello Sport e la sua piccola ma significativa anticipazione.

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14 marzo 2014 5 14 /03 /marzo /2014 01:59

Questa è una piccola riflessione pubblicata su Stadio di martedì 11 marzo, dopo l'ennesimo risultato del Bologna, arrivato senza un gol segnato. Il gol è tutto? Un tempo no. Nella recente storia del calcio è invece sembrato di sì. Avere un campionato con delle differenze così pronunciate tra le squadre di elite e quelle della coda ricrea una situazione di circa mezzo secolo fa. Ho provato a descriverla così, mettendo insieme, come spesso capita, elementi diversi, ma comunicanti. Il calcio non appartiene solo allo sport..

 

BOLOGNA - Gianni Brera diceva che la partita perfetta dovesse finire zero a zero. Non che la gente si esaltasse per questa massima imbevuta di spirito catenacciaro (sei bravo se blocchi l'avversario, che a sua volta eccelle se ti blocca). Tutti, però, accettavano questa maniera di vivere la competizione perché in fondo forniva una tiepida garanzia in un'era in cui una (la vittoria) valeva due e non tre (punti).

 

Era l'epoca in cui si stava formando la classe media italiana e il pareggio era un po' come il posto fisso. Un rifugio, ma anche una grande ambizione a portata di mano. Sogni e concretezza: la Cinquecento e gli zero a zero. Era l'epopea del quotidiano e il quotidiano poteva diventare epopea. Si ascoltavano le partite per radio, andare allo stadio era un evento da raccontare il giorno dopo a scuola. Anche uno zero a zero aveva un destino glorioso, perchè si irrobustiva del contributo di chi vi aveva assistito e che poteva riferire un po' quello che voleva. Lo zero a zero era, poi, l'ultima tutela dei club che si arrangiavano come potevano. Senza mai segnare, in teoria, ci si poteva anche salvare. Perché, alla fine, un punto a partita sarebbe comunque bastato.
  

Il calcio di oggi sta a quello di allora come la Littorina al Cern di Ginevra. E' tutto più veloce e più intenso, c'è meno stile e più retorica, meno tempo e più immagini, più differenze e meno sogni. E' il calcio in cui fa specie immaginare che Bologna-Sassuolo e Napoli-Roma, viste nello stesso giorno in tivvù, siano partite dello stesso torneo. Nell'epoca che ha reso tutti precari e emarginati, cosa c'è di più precario di un calcio che non sa dirti se fai bene a difenderti o se devi piuttosto attaccare? E cosa c'è di più emarginante che giocare un campionato a 50 punti da chi guida la classifica? Se poi la Juve sogna di arrivare a 100, oggi, secondo, le proiezioni dell'attuale classifica ci si salverebbe a quota 32. Massimo 33. E allora persino una derelitta squadra come il Bologna che non segna da quasi cinque giornate può immaginare di continuare a non far gol e salvarsi. E' il paradosso di un calcio tanto nuovo da sembrare vecchissimo.
                    

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  • bartolozzi
  • Nato a Roma il 7-3-1962, giornalista
  • Nato a Roma il 7-3-1962, giornalista

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