All'improvviso qualcosa cambiò. E fu un nuovo inizio. Chi si è inginocchiato in campo nelle ore successive la morte di George Floyd per ricordare i fatti di Minneapolis è stato sanzionato. Da ieri non più. Calcio e politica restino lontani, ammoniva finora la Fifa. In un certo senso a ragione: c'è da proteggere un patrimonio; un grande campione mentre gioca non deve essere sfruttato da nessun tipo di propaganda (escluse quelle commercialmente garantite dal sistema, verrebbe maliziosamente da aggiungere). E comunque distinguere fra propaganda buona e quella cattiva sarebbe troppo rischioso.
Ma dove c'è un Creonte, nasce sempre un Antigone. Da lunedì non si contano più: hanno sfidato ogni reazione. Quando una regola viola una legge morale e un fatto straordinario impone un comportamento straordinario, allora qualcosa cambia. Il calcio così riscopre di appartenere al mondo. In modo diverso da come si era abituato placidamente e tecnologicamente. Il calcio, oltre ai numeri dell'economia, infatti, mette in circuito in prima istanza dei valori: la leale competizione, il sentimento di fratellanza che spinge atleti a sfidarsi partendo dalla pari dignità. La stessa Fifa ha sostenuto ovunque e nel tempo campagne contro il razzismo. I fatti di Minneapolis hanno però infuso in un corpo vivo quelle intenzioni spesso rimaste incastrate fra le lettere dei proclami per i quali l'odioso aggettivo "buonista" in qualche caso è sembrato opportuno. Ora un mondo intero si solleva, lo sport s'indigna e si vede. E i campioni non si nascondono, anzi si mostrano, come a Berlino nel 1936, a Città del Messico nel 1970 e oggi, con un mano, un pugno o in ginocchio.
E' significativo, ma fa riflettere, che questo sia accaduto anche in Italia. Fra tante reticenze e balbetti ci siamo affrancati da una stagione cupa in cui il razzismo espresso in qualche modo da certi gruppi di tifosi è stato trattato con troppe sofisticherie e distinguo obliqui. Fino a che una durissima presa di posizione da parte della Lega calcio ha rotto il fronte dell'ambiguità. E a tutti è sembrato un gran passo avanti. Atteso però alla prova dei fatti. Pensare che il problema non ci sia più perché gli spettatori sembrano destinati a restare fuori dagli spalti non sarà certo una vittoria. Come quando qualcuno immaginò di togliere il volume all'odio. Resta da sperare, anche in ginocchio, che il fronte antirazzista così compatto fra calciatori e dirigenti in questi giorni di lutto e furore, resti tale anche un domani. Quando il velo nero della discriminazioni tornerà ad avvicinarsi a molto meno dei 7500 chilometri che ci separano da Minneapolis.