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11 maggio 2012 5 11 /05 /maggio /2012 00:12

Giovanni Favia, leader emiliano del movimento cinque stelle di Beppe Grillo, è stato ripreso mentre, a sua volta riprendeva le crudissime scene del suicidio di Maurizio Cevenini, leader del Pd bolognese, dal palazzo della Regione. Maurizio Cevenini ha deciso di togliersi la vita nella tarda sera di martedì 8 maggio gettandosi dal suo ufficio. Il corpo è stato ritrovato solamente mercoledì mattina, con gli effetti di un volo di sette piani. Dagli uffici dei vari consiglieri regionali, fra cui quello di Giovanni Favia, si può osservare il punto in cui Cevenini si è schiantato ed è morto. Giovanni Favia è stato "beccato" mentre, armato di telecamera, inquadrava dall'alto, dove nessun giornalista e fotografo avrebbe potuto, nè avrebbe osato andare, il punto dell'impatto e ciò che intorno rimaneva del corpo di Cevenini, mentre, in basso, la polizia scientifica concludeva i rilevamenti. Si è giustificato così: "Deformazione professionale, sapete io facevo il video-maker".

La nausea e il disgusto sono le prime reazioni. Ma facendo sbollire la rabbia si deve cominciare a ragionare. Partendo da una affermazione di Grillo, resa proprio contemporaneamente alla bravata del suo adepto. Il guru ha sentenziato: "Senza di me ci sarebbe il nazismo". Ma in cosa potrebbe incarnarsi - mi sforzo di ipotizzare - il nazismo del terzo millennio?

Il nazismo è l'espressione politica di una cultura o di una visione del mondo secondo la quale da una parte esiste la ragione dei puri e dall'altra ciò che per questa concezione è rifiuto, Abfall. La lotta non ammette prigionieri. Il puro spazzerà via il debole e l'impuro; e così la società, finalmente mondata, potrà assurgere al suo esito definitivo. Al debole, all'impuro, non è concessa chanche di redenzione, non avrà forse nemmeno l'opportunità di scegliersi la fine. E tutto è catalogato secondo questa sfida apocalittica. Se il debole è una persona che non ha i requisiti di purezza sarà un Untermensch (sotto uomo); semmai producesse arte sarà Entartete Kunst (arte degenerata). Nel 1937 ne fecero addirittura una mostra per indicare, semmai fossero sorti dubbi o sbandamenti estetici, a cosa si faceva riferimento.

Provo ora a immaginare la trasfigurazione della cultura che ha formato il nazismo, il fascismo, i violenti populismi. E provo a immaginare che caratteristiche dovrebbe avere un movimento che incarni oggi quelle caratteristiche. Dovrebbe innanzitutto usare un linguaggio violento, dove uccidere, scomparire, annullare, cancellare, annichilire, spazzare via, siano i verbi che si riferiscono ai propri avversari. E questi avversari devono essere individuabili subito, attraverso caricature che ne propongano la maschera e non il volto. Tutti questi nemici devono essere accumunati da un destino, quello di rappresentare il lezzo, il marciume, quel rifiuto che rende tutto indistinto. A loro la scelta: abbandonare e annichilirsi o venire travolti. 

Perciò chi fa politica secondo l'aura che ha creato certi populismi, fascismi e nazismi deve proporre oppositori tutti uguali che differiscano fra loro per dettagli inessenziali che, semmai, ne accentuino il carattere ridicolo e repellente. E così non ci sono avversari, ma solo nemici. E non c'è un nemico migliore e uno peggiore: tutti sono uguali, tanto che non vale la pena dialogare con uno di loro su un argomento, con un altro di un altro, differenziando e sostanzializzando un rapporto che, nella società, è, al contrario, ben articolato. Il mondo della stirpe dei puri è diviso in due, separato da un sol colpo di spada: immondizia da una parte, brillare di stelle dall'altra. Impossibile in questo cascame vedere l'uomo, il volto, l'anima, la debolezza, la genialità, la timidezza, il coraggio, l'esitazione: sono tutti uguali i nemici, questi escrementi (il termine merda nelle sue apprezzabili sfumature è un elemento di tenace continuità tra il vecchio e il nuovo nazismo) sono concime funzionale al sistema. Ma la logica li destina ad un solo esito: essere spazzati via dalla stirpe dei puri.

C'è poi un altra parola, nella storia dello scorso secolo, che è stata contagiata da questo manicheismo messianico. Un lessico che si ritrova in certi dottrine di tipo positivistico-marxiste che hanno dato luogo ad autoritarismi stalinisti. E' un termine che, ad esempio, Grillo formalmente usa poco, ma di cui sono imbevute le sue analisi. Il termine è "Oggettivamente". Per certi stalinismi i nemici vengono individuati "oggettivamente" dalle determinazioni della storia. E quindi si procede alla loro eliminazione. E così oggi: il sistema dei partiti rende ciascuno dei protagonisti della vita politica un morto vivente, uno zombie, una salma, "oggettivamente". Cioè ciascun nemico può anche avere nel suo intimo convinzioni originali o animare battaglie nobili, può condurre forme di resistenza individuali, può avere una sua ricchezza, una soggettività creatrice, ma tutto questo al dispensatore di oggettività non importa. Tutti gli avversari sono macinati in un processo di accorpamento che ne fa smarrire l'identità, la personalità, la differenza. Insomma ciascuna soggettività scioglie la propria identità nel manicheismo che contrappone i portatori di luce e la stirpe degli eroi alle salme e agli zombies, in una indistinta oggettività.

E dove si trova un abuso dell'avverbio oggettivamente, oltre che in certi linguaggi stalinisti, anche se in modo più raffinato e quasi con venature pedagogiche? Nel linguaggio delle Brigate Rosse: padri di famiglia, operai, aguzzini di stato, professori miti e baroni, giornalisti spie e servi, cronisti dall'indipendenza cristallina, facevano tutti parte "oggettivamente" della schiera dei nemici di classe ai quali destinare una pallottola. Non c'era differenza, nessuna possibilità di mediazione. O di qua o di là. Rispetto zero per le debolezze o per i bisogni che non provengano dalla schiera degli eletti.

E così per Grillo la questione degli immigrati è noiosa. A noi interessa far fuori la politica - sostiene - interessa uccidere i partiti, solo così risolveremo i nostri problemi. E non ci vengano a parlare di dare la cittadinanza a ragazzini nati in Italia che con il paese d'origine dei genitori non hanno più in comune nemmeno la lingua: questo è un falso bisogno. Anzi un trucco, un complotto per sviare il popolo dal vero obiettivo: la catarsi, che si realizzerà attraverso la soppressione politica dell'avversario. E come si permettono - incalza il profeta - i nostri nemici di mettere in mezzo gli immigrati? Per farsi salvare il culo da questi ascari che con le loro insulse tematiche sviino dalla lotta vera. Piccoloborghesi!! Urlerebbero gli stalinisti d'un tempo che indicavano nei deviazionismi quelle scelte politiche che accoglievano, come si direbbe oggi, altre sensibilità.

L'altro aspetto di continuità tra vecchi e nuovi populismi violenti - oltre l' annichilire i bisogni di altre espressioni sociali che intralciano, come l'immigrato che non conta, non è dei nostri e ci fa perdere tempo - è quello del complotto. I grandi poteri tramano: tutto quello che vediamo è una forma di dominio che è stata concepita per tarpare le ali alla stirpe dei puri. Si è passati così dai complotti pluto-massonico-giudaici dei fascismi e dei nazismi, ai complotti dei giornalisti (servi per definizione), dei mezzi d'informazione (tutti uniti nel deformare la realtà a vantaggio del potere costituito, anche qui nessuna differenza) e dei partiti (piccoli, grandi, partecipati, padronali, di massa, d'elite, è lo stesso) o delle istituzioni che sono sempre marce, a prescindere dalle norme che le hanno edificate e dagli uomini che le compongono. E così si racconta in diretta, spacciandola per vera-unica democrazia, quello che si scorge nel palazzo infetto, grazie alla abilità di isnerire nelle istituzioni degenerate dei manipoli di puri. E allora streaming delle inutili assemblee politiche regionali, provinciali, comunali, dei detestabili rendiconti in commissione. E tutto quello che lì accade è uguale, è percepito (e raccontato) alla stessa maniera. Non c'è luce in questo Ade tenebroso, tutto va vomitato dalla bocca e consegnato nella sua maleodorante aggregazione al ludibrio del popolo che giudicherà (il popolo beninteo è formato dalla stirpe dei puri eroi o dagli illuminati che rinfrangono la luce dei puri, delle stelle).

E tutto fluisce senza pietà, senza umanità senza differenze. Questi angeli sterminatori (e con loro gli apostoli della narrazione delle malefatte della casta, come gli ormai noti giornalisti filo-grillini del grande gruppo editoriale) descrivono uomini e fatti identici: tutti rubano, tutti se ne approfittano, tutti dominano attraverso un potere e una funzione che è usata impropriamente, tutto sempre uguale, tutto sempre prevedibile. Ogni storia ha un inizio, una fine, maschere uguali, ma dai nomi differenti.  

E così nella narrazione cibernetica realtà e racconto si mescolano e perdono l'una sostanza e l'altro valore simbolico. Il regno del male da combattere (con tutti coloro che vi partecipano) viene raccontato con foto, immagini, registrazioni audio, incessantemente. E così le salme, gli zombies, i nemici entrano in questo condotto di scarico dove l'antidoto al male che essi rappresentano è il flusso stesso in cui sono evacuati e cioè il modo di raccontare. Essi ad un certo punto emergono insieme al modo in cui sono raccontati, sospinti verso i collettori che mescolano i fatti e gli individui con la loro gelatinosa rappresentazione fornita dalla grande capacità della stirpe dei puri che prima di tutto deve essere stirpe di affabulatori e narratori. Alla fine, però, non si sa più quale sia la realtà e quale sia la narrazione, dove c'è accadimento e dove rappresentazione, quali sono i dati e quale è l'orazione, in che punto le notizie sono mescolate alle iperboli. Perciò tutto e tutti vanno filmati, ripresi e al tempo offesi in ogni aspetto. Anche se ridotti all'impronta sull'asfalto di un corpo martoriato dopo un volo di sette piani, anche se sono stati miti e attenti padri di famiglia anche se, nel gettarsi nel vuoto, al culmine di una devastazione interiore, si sono tolti gli occhiali per restare "nascosti" nel volo verso il buio.

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PS Aggiungo: Favia ha dichiarato di non aver filmato il corpo di Cevenini che era già stato portato via. Una precisazione del tutto irrilevante sia in ordine all'analisi svolta (modalità politiche per riferirsi agli avversari e lo sviluppo della propria azione) che rispetto alla puntualità della lettera del testo dove non si è mai parlato di un corpo filmato, visto che il gesto di riprendere la scena è stato violento e esecrabile, a prescindere da quello che veniva documentato. In questo contesto il nazista e lo sciacallo a cinque stelle rappresenta chi incarna lo spirito che ha creato i presupposti del movimento hitleriano i suoi valori di base, le modalità culturali che lo hanno generato (e hanno generato anche dell'altro) si coniugano con uno sciacallismo doc. Dove il doc è rappresentato dalle canoniche stelle: quattro o cinque, appunto

 

PPS Favia ha ammesso l'errore, frutto di un istinto documentaristico, ma attacca tutti quelli che lo hanno criticato dando loro degli sciacalli e dice che non perdonerà nessuno. Sostiene che in queste ore ha sofferto molto e si spende in elogi e lodi sperticate per Maurizio Cevenini. Bisogna capirlo, è un uomo andato in confusione. Speriamo che la prossima volta prima di compulsare indifferentemente una seduta di un consiglio regionale o un suicidio, abbia il discernimento di distinguere. Anche se l'attacco e l'annuncio di non voler perdonare i critici dimostra che tanto lontano non è poi andato neanche questa volta dal suo modo abituale di intendere la politica, il contraddittorio e gli avversari. La forza della rete, stavolta, lo ha costretto a queste contorsioni. Spero sia una lezione che non dimenticherà. Se continua a fare così significa che non si arrende, chissà se gli conviene.

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9 maggio 2012 3 09 /05 /maggio /2012 20:01

La furia di un allenatore, Delio Rossi, contro un calciatore della sua squadra, la Fiorentina, colpevole di aver commentato la sostituzione con un applauso. Questo il testo di un articolo che ho scritto per il mio giornale lo scorso sabato 5 maggio. Volevo condividerlo con voi.

 

Le scuse di Delio Rossi arrivano insieme ad altro. L'allenatore, protagonista di una reazione violenta agli insulti di un suo giocatore, si spiega, ma chiede ai suoi interlocutori di non fare domande. La modalità è sacerdotale: il verbo discende sulla comunità. Rossi si autocondanna, poi si autoassolve: vuole rispetto e non giudizi. «Gesto sbagliato, ma giustificabile - ha detto - E comunque ci sono stati troppi moralismi e perbenismi». E allora, visto che nel suo monologo Rossi cita la sapienza indiana («prima di esprimerti su una persona devi camminare due giorni con i suoi mocassini») e visto che insegue un modello profetico, proviamo a seguirlo sul suo stesso terreno.

Ogni gesto è un segno che rimanda a norme etiche. Nello sport questo percorso ha tracce antiche, visto che è una disciplina iscritta in una tradizione di valori più o meno immutati. Tradire questa ispirazione è tradire i principi per i quali da sempre lo sport ha avuto una funzione simbolica.

Quali sono questi valori? Si ricavano da una contrapposizione. Da una parte «l'uomo misura di se stesso», dall'altra la concezione che suggerisce piuttosto che l'uomo debba essere misurato. Se, come dice Protagora, l'uomo è misura di se stesso, ciascun Delio Rossi che si ritenga oltraggiato può picchiare chi capita, perché ha una giustificazione che rende, a suo dire, il gesto comprensibile. E così domani lo farà il presidente di un club, dopodomani un presidente di federazione, un sindaco, un capo di governo, un popolo verso un altro trovando in sé le motivazioni per ogni gesto: dalla sopraffazione allo sterminio. Esistono solo interpretazioni e non fatti, è la sentenza  che, in linea con questo filone, arriverà secoli dopo.

E' invece di Socrate l'idea che l'uomo non sia misura, ma vada misurato: un criterio che accomuna i realismi laici alle spiritualità religiose. Quest'ultimo valore è stato subito sposato dallo sport anzi lo ha costituito per primo, poi Socrate ha acceso la disputa con Protagora. Chi ha creato la strada che dai valori dello sport ha raggiunto Socrate? Il primo giornalista sportivo. Giornalista e poeta, cantore delle gesta dei giochi dell'antichità: Pindaro. Pindaro e poi Socrate scelgono, fra le tante divinità di riferimento, Apollo. E' il Dio solare, non quello della furbizia, nè della tecnica o della ragione. 

E' il Dio della trasparenza al criterio originale, il Dio del "segno". E cosa canta e cosa racconta Pindaro nelle gesta sportive, attraverso l'ispirazione apollinea? Non la vittoria a tutti i costi. Pindaro non elegge a simbolo i successi raggiunti con astuzia e violenza, anche se riparatrice (lo schiaffo per un'offesa sarebbe esemplare).

Pindaro abbraccia ciò che per i greci è l'«aretè», la «virtus» latina. Lo sport di Pindaro, quello della nostra tradizione, è immerso nella solarità e nella santità dell'insegnamento: lui fonda la stirpe dello sportivo virtuoso. Dove la virtù è la giustizia, è il buono, è il bello. Altro è il vincere o l'imporsi.

E' tradizione, ma è attualità. Anche sull'eco della disputa fra il sofista Protagora e il savio Socrate, da un anno si è acceso un dibattito tra due grandi filosofi italiani (caricato, ovvio, da due 2 millenni di cultura): c'è chi ritiene valgano le interpretazioni e non i fatti, chi invece propone il ritorno a criteri realistici. Anche lo sport, inutile nasconderlo, è attraversato da ripensamenti valoriali. Ora Delio Rossi, per il bene dei ragazzi che con lo sport si formano e che devono misurarsi con un criterio, scelga: il reale ha ancora senso o esistono solo interpretazioni?

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16 aprile 2012 1 16 /04 /aprile /2012 02:20

La morte in campo di Piermario Morosini mi ha spinto a scrivere questo testo pubblicato su Il Corriere dello sport-Stadio di domenica 15 aprile. Volevo condividerlo con voi.

 

BOLOGNA - La gamba destra distesa, la sinistra sorretta per poco dal ginocchio, poi tutto il corpo cede. Reagisce, Morosini: il ginocchio destro è il puntello per rialzarsi, si solleva appoggiato sul braccio sinistro, crolla ancora. Però, resiste: carponi. Ma cedono anche le due braccia, la testa è piombo, il petto si adagia, il prato lo accoglie. Di lì a poco il buio. Cosa è accaduto a Morosini prima del buio? Cosa è accaduto a noi davanti la televisione, ai tablet, ai computer, rivedendo quelle immagini e partecipando, ora che sappiamo tutto, di quegli attimi finali?

    Quando Lachesìs non ha più del lino,/ solvesi da la carne, e in virtute / ne porta seco e l'umano e 'l divino: / l'altre potenze tutte quante mute; / memoria, intelligenza e volontade / in atto molto più che prima agute.


    E' Dante per bocca del poeta Stazio (Purgatorio, XXV, 79-84) a descrivere il momento del trapasso. Lachesis, secondo il pensiero classico, assieme alle altre Parche, regola l'esistenza di ciascuno di noi. Lachesis svolge l'ultimo tratto del filo della vita dal suo fuso che resta a girare, vuoto. In quel momento i sensi di chi sta morendo collassano, non si vede, non si sente, non si ha più forza (l'altre potenze tutte quante mute). Ma accade una cosa straordinaria,
sostiene con forza il grande teologo, filosofo e poeta fiorentino: la memoria, l'intelligenza e la volontà sono in atto e più acute. La forza del termine «in atto» sta lì a dire che ai sensi ammutoliti risponde una coscienza vivida come mai. Non più di prima, come mai: c'è, poco prima del buio, un salto di livello. Tanto breve quanto intenso.

Qualche tempo fa è scomparso uno straordinario uomo del nostro tempo e di tutti i tempi: James Hillman. Il suo trapasso graduale, in piena consapevolezza, è stato descritto da lui stesso con l'arte dello studioso della psiche. «Muoio e comprendo cosa è il vivere in modo più straordinario». Anche in questo caso, comunicandolo, è morto, in qualche modo, in diretta. 

 Con la morte la nostra coscienza trapassa in qualcosa di altro. Ci sfugge cosa sia questo altro. Ma c'è l'intensificarsi di un atto di consapevolezza. La morte - lo afferma la tradizione dei Padri - è un'implosione della coscienza. Cos'è un'implosione? Dal punto di vista tecnico è una detonazione verso l'interno. Come si fa? Purtroppo è anche semplice. Basta fare una carica di esplosivo e disporla in modo circolare; dopo di che allo scoppio, all'interno, l'enorme pressione determina una temperatura e una pressione spaventosa. E così l'implosione di coscienza è il brillare di una consapevolezza estrema. E così la diretta televisiva e le infinite repliche che ci rimandano agli spasmi di Morosini, restando impressi nell'anima di milioni di persone, rappresentano l'implosione della coscienza collettiva. E così tutti noi, da vivi, abbiamo vissuto quello che Stazio ha raccontato dal suo Purgatorio. Noi tutti, insieme a Morosini, siamo usciti dalle condizioni abituali dell'esperienza verso qualcosa d'altro. La nostra coscienza non è mai stata così vivida, abbiamo in un attimo capito tutto, abbiamo afferrato il terrore del buio e l'intensità della vita. In un certo senso, insieme a Piermario, siamo morti. Anche se manca la lingua per dirlo.

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2 aprile 2012 1 02 /04 /aprile /2012 02:46

BOLOGNA - La visita di Mario Monti alla scuola formazione  del Partito comunista cinese,  in realtà non una struttura  per quadri, quanto una scuola di amministratori di entità territoriali, sul modello dell'Ena francese, ha riservato una piccola sorpresa. Parlando dei massimi sistemi e uscendo, perciò dalle contabilità alle quali è abituato, il nostro presidente del consiglio si è lanciato in un breve compendio della storia della lotta di classe del XX secolo. E ha detto: la sfida fra il capitalismo e il comunismo si è conclusa nel 1989, ha vinto il capitalismo, cioè il sistema che aveva più frecce al proprio arco. Insomma hanno vinto i buoni. Ma - e qui arriva la sorpresa - questa vittoria, lasciando il capitalismo completo dominatore del mondo, ha spinto il sistema a impigrirsi. Non ha trovato risorse e energie in se stesso. Da ciò forse la nascita - secondo Monti che però non lo dice testualmente - degli effetti degenerativi del capitalismo senza merci, o meglio la finanziarizzazione del capitale che ha quasi completamente sostituito la industrializzazione del capitale. Da qui la gestione autocratica, spersonalizzata, neoliberista senza mediazione, dell'economia mondiale che ha arricchito i ricchi e impoverito i poveri. 

E bravo Monti. Più che una lectio maistralis sembra un outing, ma questo ci interessa appena un po'.

 

Già in questo blog avevamo trattato l'argomento. (La ricetta liberal impigrisce le aziende. http://bartolozzi.over-blog.it/article-la-ricetta-liberal-della-flessibilita-impigrisce-le-aziende-la-lotta-di-classe-produce-sviluppo-ec-89792845.html). E viene da sorridere pensando al tecnocrate che in Italia vuole risolvere i problemi di crescita (che avrebbero bisogno di creatività del capitale, spirito concorrenziale vero e non delle pastette all'italiana con la finta concorrenza, oltre a investimenti e ricerche) con flessibilità e licenziamenti, affermare quando  parla di storia, filosofia e macro-sistemi, il contrario di quello che poi mette in pratica.

 

Perchè l'ha fatto? Per ingraziarsi i vertici dell'establishment cinese che poi dovranno investire in Italia? Può darsi. Al di là del disprezzo formale per la politica, Mario Monti è esattamente la figura del politicante, anche se non è al servizio di un collegio elettorale ma di nomenklature sovranazionali. E di conseguenza si comporta con le stesse modalità sia quando è in Italia, sia all'estero. Ma non è solo questo. Non è solo piaggeria verso i cinesi che del modello comunista conservano a mala pena la bandiera rossa. La verità è molto semplice.  L'argomento usato da Monti, al di fuori di ambienti ideologicamente intossicati, come quello italiano che vive una coda della grande sbornia mondiale neoliberista, è tanto spendibile da risultare persino scontato. Se lo si usa, si va sul sicuro. E per Monti, sappiamo che, non prendersi rischi, è una sorta di religione. L'azzardo è una bestemmia, agire per schemi è un rosario. Quanto però affermato alla scuola quadri del PCC, oltre ad essere una tesi di certa affidabilità, guarda un po', è anche un argomento marxista. E Monti l'ha più o meno consapevolmente fatto suo.

 

Proprio quello che Monti dice circa la pigrizia del sistema capitalista (nei confronti di un modello antagonista), lo dice Marx parlando dell'antagonismo di classe che fa il bene di ogni singola azienda, proprio perchè impegna il suo management a trovare soluzioni più creative, tecnologicamente efficaci, che seguano una logica dell'investimento (e non dell'accumulazione) e quindi del progresso (dal risparmio energetico a quello della ottimizzazione dei fattori di produzione). Migliorando di conseguenza la qualità della merce prodotta. A parità di prezzo deve essere migliore, o deve costare meno se prodotta esattamente con le stesse modalità di prima. La lotta di classe quindi spinge le aziende ad abbattere i costi o a migliorare i beni, traducendo il tutto in un vantaggio per la società, per i lavoratori stessi e per i consumatori in genere.

 

La lotta di classe impone condizioni diverse nelle fabbriche da quelli immaginati dal capitale: blocca orari di lavoro e prestazioni e quindi costringe il capitale a trovare nella diversa produzione, nello sviluppo, nell'investimento e nelle tecnologice, quel plusvalore che pigramente e facilmente troverebbe nei modi che i liberal e i padroni, uniti nella lotta, individuano come efficace scorciatoia: licenziamenti, straordinari non retribuiti, peggioramento delle condizioni di lavoro, etc. Il capitalismo straccione e impigrito, quindi, non  si ridesta dal suo torpore e non innesca i suoi circuiti virtuosi se gli si offre sempre la soluzione più comoda. Fa quello che ha sempre fatto in questi anni: accumola profitto e rende  sempre più larga la forbice tra lavoratori e gestori del capitali (siano manager, dirigenti, consiglieri d'amministrazione). Altro che impulso all'economia. Nel libro primo del Capitale (II e IV sezione) sono individuati questi effetti e l'intera recente storia economica è lì a dimostrare la fondatezza di queste tesi. In più, altro costo, è proprio lo stato che di fronte all'aggravarsi di queste contraddizioni deve "intervenire con regolazioni sempre più organiche".

 

Lo stato, qualora si lasci mano libera al Capitale deve farsi carico, in qualche modo, dei costi sociali generati dalla flessibilità che preveda licenziamenti e difficoltà di trovare un impiego sia dopo un licenziamento, sia in occasione di prime occupazioni, a condizioni accettabili. Insomma la lotta di classe fa bene anche alla salute di quelle istituzioni che risparmierebbero così sulle tutele straordinarie ai lavoratori, cittadini, territori, in conseguenza di tagli sul costo della forza-lavoro.

 

Ma, con la venuta meno della lotta di classe o del campo socialista, la pigrizia che cita Monti non ha colpito solo le aziende e il sistema globale. Ha colpito anche il movimento dei lavoratori che prima, diviso fra riforme e rivoluzioni, schierava nel campo dei riformisti dirigenti politici in grado di promuovere idee di rinnovamento che potessero reggere le sfide e l'utopia del socialismo. Di qui i successi del mondo occidentale (1960-1970) "riformato" che poteva mostrare un benessere più elevato, condizioni di sfruttamento mitigate e persino diritti di controllo del sistema produttivo concorenziali con quelli disponibili nel campo socialista (oltre alle libertà individuali).  Piaccia o non piaccia è stato il socialismo a stimolare il mito della socialdemocrazia. Con la venuta meno del pungolo socialista, i movimenti lab sono diventati lib e i socialdemocratici si sono trasformati in neo-liberisti, appoggiando (e difendendo) l'esistente e il contingente modello di produzione. Con effetti devastanti in Italia, Francia, Inghilterra e Spagna. Dove interi partiti si sono trasformati e la stessa cultura di una classe politica laburista e riformista ha virato verso una cultura cultura demo-liberista.

Insomma senza comunisti, stiamo davvero tutti peggio. Ha ragione Monti.

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20 marzo 2012 2 20 /03 /marzo /2012 13:07

BOLOGNA - Mentre il ricatto e l'offensiva sul lavoro si sta accanendo e i sindacati sono accerchiati, anche grazie ad un intervento sconcertante di Giorgio Napolitano, per dare via libera senza troppe storie ai licenziamenti di massa con la modifica dell'art 18, emerge sempre di più il carattere classista di questo governo. Le forze politiche balbettano, nessuno risponde per le rime ad una serie di affermazioni che in questi giorni sono piovute dai vertici del Governo. Sia Mario Monti che la ministra Fornero si fregano le mani. Falchi del liberismo non credevano in tanta acquiescienza da parte degli interlocutori che avrebbero dovuto ergersi a guardiani degli interessi dei lavoratori e per lo meno della cosiddetta middle class. I ministri del governo liberista italiano sanno che possono fare tutto e allora vanno avanti, a chi la fa e a chi la dice più grossa. Tanto per loro basta mantenere intatte le rendite, l'intangibilità dei capitali e rendere quasi divina l'aristocrazia di manager che ormai guadagna dalle 400 alle 500 volte più di un loro dipendente, al netto dei bonus che continua a prendere nonostante la crisi, gli aiuti di stato e la miseria che morde ogni altro cittadino.

 

Che il dibattito italiano sulla materia sia per lo più ispirato da mezzi di comunicazione in mano ad oligarchie che estendono il loro dominio dal mondo finanziario a quella che resta della nostra manifattura, passando per il gioco sporco degli appalti, è ormai noto. Quello che meraviglia è la scomparsa dei riformisti. Il loro contributo alla storia d'Italia è stato modesto, in omaggio a questo profilo basso hanno evidentemente deciso di mancare gli ultimi appelli, arruolati, come sottufficiali di complemento, nell'esercito del neo-liberismo.

 

Un esercito che da noi ha mostrime, inni e uniformi vecchi di trent'anni. D'altronde, per quanto riguarda le classi dirigenti della borghesia italiana, noi abbiamo sempre mancato le prime visioni, non abbiamo mai avuto i dessai e ci siamo solo abbeverati ai cine-panettoni o più che altro alle vecchie serie tv importate da nazioni che nel frattempo vedevano e facevano altro. Così da noi Elsa Fornero fa la parte di Margaret Tatcher, oltre trenta anni dopo.

 

Sembra una visione fuori dal tempo, ma purtroppo sta davvero andando in questo modo. Basta anche sentire quello che dice Mario Monti, l'uomo della Goldman Sachs, la banca d'affari accusata di aver truccato i conti della Grecia per permetterne l'entrata nell'Euro e poi accusata di aver cominciato, da quel momento, una violentissima campagna speculativa su quei prodotti finanziari che essa stessa aveva contribuito a creare, ben conoscendone l'inconsistenza.

 

Dopo aver incontrato il deus ex machina della Fiat, Sergio Marchionne,  che ha costretto alcuni sindacati a firmare l'accordo a Lingotto in cambio di una politica di investimenti, mai formalizzata e ora ritrattata (si dovrebbero dimettere tutti quelli che hanno siglato quell'intesa) Mario Monti ha detto più o meno così. 

 

"Chi gestisce la Fiat ha il diritto e il dovere di scegliere per i suoi investimenti e per le sue localizzazioni più convenienti".

 

Questa frase è emblematica dei valori sullo sfondo delle azioni del capo del governo. E bisogna subito dire: con uno che la pensa così non ci si può prendere nemmeno un caffè insieme. Ma veniamo al punto. Se uno sceglie le sue localizzazioni in base al principio della convenienza dice una cosa chiara. Innanzitutto esclude il riferimento ad alcuni principi. Primo: Se oggi produci un bene in una parte del mondo e, domani da un'altra parte per profitto, non scegli di produrre in base ad un'idea di lavoro intesa come attività di formazione dell'individuo. Che è una nozione liberale, non dico socialista. Secondo: il nomadismo produttivo condizionato dal profitto non sposa lo sviluppo e la promozione di una comunità. Anzi, se ne tiene ben lontano. Perchè rifiuta l'idea di una comunità che si forma e si struttura in base alla propria produzione (modalità e oggetti) e che individua, in questo legame trans-individuale tra individuo, produzione e gli altri individui, l'essenza dell'uomo (una nozione marxiana). E' un modello d'impresa che rifiuta anche certe suggestioni (di destra) legate ad una comunità nazionalistica o aristocratica, ma non svincolata dal territorio. Il modello d'impresa di Marchionne rifiuta anche la logica  produttiva legata allo sviluppo di una corporazione o di un popolo (i fascismi, i leghismi, i comunitarismi di recente formazione). Infine non lo fa secondo un principio di interazione con la terra, l'ambiente. Marchionne lavora convenientemente in un posto, ma quando questa produzione, che non si modula in riferimento ad un determinato ecosistema o ad un altro, non lo fa più ricco, cambia. Punto e basta. E di ciò che lascia, chi se ne frega. I costi  dell'impatto non sono affar suo.

 

Ecco quindi svelati i veri valori dietro il proclama di Mario Monti, dopo l'incontro con Marchionne. E nessuno ha detto: con queste parole, caro Monti, hai chiuso. No, non è successo. Eppure per me questa affermazione è dello stesso tipo di una frase dai contenuti raziali. Con essa si offende la dignità dell'uomo. Proprio come lo si fa discriminando una razza nei confronti di un'idea-valore di uomo che le altre razze, s'intende, dovrebbero avere. Sotto-uomini chiamavano i nazisti certe popolazioni, untermensch. Così per i neoliberisti l'idea di uomo come strumento per l'arricchimento (ha detto proprio così, Monti: Marchionne fa bene ad andare a creare lavoro dove più gli conviene e di conseguenza il lavoro è valutato solo in base al criterio di convenienza della sua mercificazione, la forza-lavoro) è una sottospecie dell'idea che, con tante modulazioni differenti, da Aristotele a oggi, ci siamo fatti (o su cui la civiltà umana si è divisa e confrontata) dell'Essenza dell'uomo. L'uomo di Mario Monti serve solo l'arricchimento di chi gestisce i mezzi di produzione., Più che un'umanità è una coltivazione. da questa idea ne consegue coerentemente un'idea tutta propria del lavoro come attività umana.

 

Altro che lavoro come strumento per la formazione dell'uomo, mirabilmente descritto da Hegel nella dialettica servo-padrone della Fenomenologia (herr und knecht) . Per Monti l'essenza del lavoro e della produzione è solo il profitto. Profitto d'impresa, non di comunità, profitto di capitale. Il capitale sceglie dove muoversi non per consolidare un ambiente o promuovere lo sviluppo di una comunità, magari concertandolo con lo sviluppo delle comunità vicine, ma solo per una accumulazione. Questa idea del lavoro e della produzione ha messo davanti a tutto l'accrescimento del capitale che non è vincolato a nulla altro se non al proprio conto economico. Questa idea dello sviluppo porterà ogni territorio e la comunità che lo abita alla spoliazione di tutti gli altri valori, di tutte le aspirazioni, di tutte le proprie picole e grandi utopie. Si lavorerà come utensili inseguendo con le proprie offerte al ribasso ogni capitale che potrà scegliere il luogo più conveniente per continuare ad autoriprodursi, finendo per eliminare, in nome di ore di produzione che sono state via via aumentate  le legittime aspirazione al tempo libero, alla cultura, alla crescita, alla famiglia, persino alle proprie aspirazioni religiose (a meno che non siano funzionali alla produttività, come il calvinismo liberista). Se l'uomo diventa un  "ente" al servizio del capitale (che quando più gli conviene ti può privare del lavoro), è disposto a rinunciare a tutto. Perchè solo con quel lavoro purchessia può sopravvivere. E c'è di peggio. Questo rapporto servo-padrone, essendo il servo il capitale globalizzato, non ha dialettica. Cioè non finisce come nella Fenomenologia dello Spirito. Vediamo perchè: tutta l'umanità sarà al servizio di un capitale ormai spersonalizzato perchè posseduto non da famiglie o da pochi uomini, ma da gelidi e impalpabili consigli di amministrazione rappresentanti di fondi, banche, entità finanziarie che interagiscono solo per creare profitto, i cui rappresentanti sono sostituibili se non obbediscono alla disciplina del creare profitto per il capitale che essi rappresentano. Non ci sarà un carattere o un ruolo o una missione che renderà possibile la dialettica. Ci saranno solo cifre e numeri invece che vita; quantità, invece che qualità. E il circolo virtuoso della dialettica come ribellione si romperà. Diventerà circolo vizioso. La crescita del profitto alimenterà se stessa e distruggerà ciò che l'avrà formata. L'alternativa è spezzare il legame determinato dall'attuale forma di dominio ormai accettata da tutti come unica soluzione possibile di fronte alle crisi che puntualmente si genereranno: oggi con la penuria di materie prime, domani con l'insufficiente distribuzione, più avanti con l'aumento delle popolazioni, infine con la ciclicità regionale dei default. Solo profitto, solo conti da metere a posto: niente democrazia, niente valori diversi da quelli finalizzati alla produzione indirizzata da queste entità finanziarie impalpabili.

 

 E dire che queste canaglie ci davano lezioni di umanesimo e libertà quando  molti di noi sognavano la costruzione, nell'era socialista, di un passaggio verso un'umanità nuova e davvero libera (società dei produttori associati, umanesimo nuovo, comunismo o come vogliamo chiamare questo approdo quasi messianico). Almeno ci abbiamo pensato. Almeno ci abbiamo provato. E perlomeno siamo rimasti, dopo tutto, uomini. Che si ribelleranno.

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19 marzo 2012 1 19 /03 /marzo /2012 13:50

BOLOGNA - Sarà un aspetto banale, ma per me è significativo. Quando ai suoi esordi politici ascoltavo Beppe Grillo parlare di argomenti che ben conoscevo mi dava l'idea di uno che spiegasse le cose usando un metro disinvolto, voli pindarici che non avevano ovviamente la profondità del grande poeta greco, approssimazione nei dati e nelle citazioni, rapide conclusioni in base ad una tipica forma dell'esporre e quindi del pensare, che è quella del giornalismo a tesi, tanto cara a certa sinistra radical, che già chiamarla sinistra mi viene l'orticaria.

 

C'è poi la sinistra cosiddetta "democratica", quella delle icone create più o meno a tavolino. Parlo di icone letterarie. Il caso Saviano: Gomorra è stato un grande reportage, più che un gran romanzo, un grande evento. Poi c'è la vicenda personale, la testimonianza e la sfida continua alla criminalità organizzata in uno Stato per un terzo balbuziente, per un terzo mafioso e per un terzo eroico. Ma discutere di Saviano si potrà pure, dico io, senza per questo rinunciare a tutta quella partecipazione per le sue vicende civili? Io dico di sì. Esattamente come molti studiosi e filosofi cattolici possono discutere del razionalismo di Galilei senza per questo recedere di un millimetro dall'idea che il processo inflitto dalla Chiesa al grande scienziato sia stato un atto indegno, una barbarie, una vergogna il cui peso ricade interamente su chi l'ha concepio e che magari tutt'oggi lo difende.

 

Saviano scrive ormai di tutto, con gli ovvi limiti imposti dalla sua condizione. Va bene se racconta le facce di Occupy Wall Street, molto meno se ci spiega chi è Leo Messi dopo averlo visto per una mezza giornata, oppure se parla di Gramsci e Turati con la pretenziosità di un grande studioso, usando quel tipo di argomenti che a mala pena sarebbero saltati fuori dalla biro di Bettino Craxi quando, ad esempio, ri-propose la polemica Marx-Proudhon. Saviano di Gramsci sa poco e si vede, ma ha la pretesa di spiegare perchè è da mettere fra i cattivi della storia, salvando invece il paziente e democratico Turati. Il tutto liquidato da cento righe o meno di elaborato. Se questa è la sinistra che raccoglie il consenso della gente c'è da rabbrividire. Non a caso, con garbo, Saviano è stato fatto a pezzi dagli studiosi, quelli veri, che a Gramsci e a Turati hanno dedicato anni di studio.

 

Ma, si dice, questo è frutto di una deriva "democratica" che vuole rendere spendibili per l'idea di un grande partito popolare e laburista solo i pensatori che non mettano in crisi il modello economico e ideologico attuale. Introducendo solo una variante, chi è onesto e chi non lo è, chi lotta le mafie e chi no. Ma in questa operazione (difendere i buoni del sistema ideologico e economico attuale) assistiamo a tutto un campionario dettato dalla fretta e dalla necessità di far arrivare messaggi rozzi e populisti: cialtroneria a peso, approssimazione, tesi da ripetere, ripetere e poi ripetere, da indirizzare ad un popolo di sinistra sempre più sconcertato. Sono contenuti prefabbricati soprattutto dai grandi network che si sono opposti al dominio di Berlusconi, ma che ora accettano il sistema unico del liberismo, più o meno soft, come unico mondo possibile.

 

Che il riformismo travestito da libersimo abbia legittimità di pensiero, anche al netto dell'incredibile valutazione di fondo che è sottintesa ("il mondo va bene così come è concepito, bisogna solo farlo meglio"), è ovvio. Ma che questo nuovo modo di proporre il pensiero della sinistra sia accompagnato da dabbenaggine, superficialità, mancanza di studio, dati e riferimenti puntuali, e soprattutto di rigore, questo è, sì, inaccettabile.

 

Già perchè il nodo è sempre lo stesso: i cosiddetti "democratici" puntano alla sconfitta del loro avversario storco. Vogliono combattere la concezione dell'uomo nuovo e riproporre quella dell'homo economicus, vogliono contrastare in ogni modo un sistema di valori che rifiuti la priorità della proprietà, vogliono demonizzare l'idea critica al liberalismo, idea che smaschera il profitto sotto le mentite spoglie del merito.

 

Insomma per la cosiddetta sinistra dei Saviano, dei Fazio e della De Gregorio c'è sempre uno spettro che si agira per l'Europa e con esso l'idea che qualcuno ancori all'idea di comunismo la critica radicale del sistema attuale, che è poi lo sfondo culturale e di valori su cui ha agito Karl Marx. Bene: questo obiettivo i cosiddetti "democratici" non possono pereguirlo sul piano degli argomenti e dello studio, dei valori scientifici e, appunto, del rigore. Dove il massimo risultato che essi potranno ottenere è l'ammissione di  partire da presupposti diversi. E infatti, non è un caso che tante delle tesi introdotte, riproposte, ricofenzionate e riadattate da Marx un secolo e mezzo fa, costituiscano l'orientamento di tantissinmi studiosi, soprattutto in ambito economico, per comprendere le crisi attuali del capitalismo, le disuguaglianze, le minacce di un sistema che divora gli uomini ed esalta merci e profitto. La banale constatazione che i miglioramenti proposti dai vari riformismi sono ormai diventati incompatibili con lo sviluppo che il modello attualmente egemone sta perseguendo, è condivisa da tutti. Proprio da tutti. Nessuno dice, per effetto delle risorse depredate del pianeta, che ci sarà uno sviluppo progessivo e uno standard di vita migliore per tutti, solo a patto di introdurre nuovi criteri di distribuzione, lotta alle lobbies energetiche, nuove forme di produzione e di approvvigionamento,  un fattivo smantellamento del sistema di accumulazione impostoci dal capitale finanziario. Ma per distruggere la sinistra che critica il modello del capitale serve la tecnica suggerita dal consumismo produttivo: la creazione di bisogni sempre nuovi e di un'ideologia che rende tutti adatti a vivere felicmente (senza rubare e comportandosi bene, cioè secondo le regole) nella società concepita così come è oggi. In questo contesto c'è ampio spazio per la sagra dello scarso rigore, l'uso ad libitum di argomenti a presa rapida, il modo approssimativo di dipingere la realtà secondo quello che abbiamo descritto prima: il giornalismo a tesi la filosofia a tesi, o l'economia a tesi, la storia a tesi. 

 

E' un modo di proporre e di esporre le cose che si annida in ogni riga di questi modi di ragionare e di raccontare. Soprattutto quando si offrono ai lettori di sinistra descrizioni di fatti lontani, da descrivere senza l'obbligo di un riscontro o con la superficialità di chi è impegnato a costruire attorno alla propria tesi, gli argomenti più populisticamente efficaci. Veri o falsi che siano. Minimo ma illuminante esempio è l'articolo di Concita De Gregorio, di oggi su "La Repubblica" (http://www.repubblica.it/esteri/2012/03/19/news/spagna-31802053/?ref=HREC1-12) un reportage sulla Spagna che torna indietro sospinta dall'offensiva della destra apostolica, franchista e liberista del PPE.

 

A leggere citazioni, interviste e dati spacciati come certezze (senza la minima citazione del ruolo della sinistra di classe che in Spagna, con la sconfitta di Zapatero, è l'unico punto di riferimento in difesa delle emarginazioni e che ha avuto proprio dalle elezioni una straordinaria investitura popolare) si nota questo refrain sul calcio. Già, perchè parlare di calcio e di Spagna è un po' tutt'uno. Parlare di modello Barça, la squadra blaugrana e di rigore che si contrappone alla deriva imperante è un topos scontato. Descrivere le allegre commistioni fra gli attuali gestori del potere con lobbies yankee e con parantele reali, deve avere per forza un controaltare: l'austero modello qausi calvinista di un Pep Guardiola, allenatore del football club Barcellona. Un facile modo di raccontare una cosa senza andare nel profondo. Sarebbe stato più incisivo e illuminante spiegare che Zapatero ha perso perchè ha indugiato di fronte alla caste liberiste, non è andato a fondo del progetto anti-sistema, esattamente con sta per capitare a noi che pure, ultimamemnte al governo, non abbiamo mai visto una vera persona di sinistra. Dove sono andati a finire quei consensi e quella fiducia che la sinistra di Zapatero avevano acceso anni fa?  Tutto questo la De Gregorio non lo offre, ma ripropone un facile schema  per indicare non chi è contro il sistema, ma chi lo sorregge con uno spirito diverso: il Barça di Pep Guardiola è un modello incantato, incarnato dal talento di Leo Messi (quanto piace ai "demo" la pulce che rappresenta il mito liberal americano, la malattia, il fisico prima minato, poi motore del riscatto, infine la carriera da star) che fa far affari alla Comunità di Catalugna, una delle poche enclavi resistenti anti-Ppe.

 

Da una parte il franchismo popolare e strisciante di Rajoy, dall'altra il calvinismo di Guardiola, dei catalani e del giudice Baltazar Garzon (ancora i giudici e la legalità nella tana del lupo, a Madrid) costretto ad andar via per una questione procedurale (dimenticando che Garzon è stato il persecutore di idee prima ancora che di crimini sul fronte della sinistra abertzale, anche verso quell'area che con il terrorismo non c'entrava). Questa nuova Spagna, si racconta nel reportage della De Gregorio, non piace più a Pep Guardiola "che per questo andrà via". E così, la Concita conclude l'articolo spiegando che pur così mal ridotti c'è in Spagna un modello vincente che si impone all'estero mentre tutto naufraga, un Barça icona ma che farà scappare il suo leader, l'unica cosa seria di questa nazione travolta dal conservatorismo. E sentite come mirabilmente conclude: "La popolarità dei partiti  politici è al minimi  storici, il Ppe vince  le elezioni a massimo livello di astensione, il Barça vince la Liga. Si annuncia un match fra il Bingo di  Las Vegas e la sveglia alle sei di  Guardiola, partita silenziosa e  sotterranea. Anche questo è un problema di immagine, a suo  modo. Di quale sia l'immagine  che la Spagna ha di sé", dice la De Gregorio impstrocchiando vaticini e difesa di nuovi miti. Peccato che la Liga la stia vincendo il Real Madrid di Mourinho, scappato anche lui al momento opportuno dall'Italia, ma dopo essersi riempito le tasche di soldi e le sue personali bacheche di trofei.  Il Real Madrid ha otto punti di vantaggio sul Barcellona a oltre tre quarti di campionato disputato. Ma alla Concita cosa gliene frega, dentro all'articolo veniva proprio bene, chiudere la storia così. Peccato non sia vero.

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15 marzo 2012 4 15 /03 /marzo /2012 18:35

Il Corriere della Sera traduce per i lettori italiani una lettera al NyTimes di un banchiere che abbandona la Goldman Sachs dopo aver constatato che quello della merchant bank americana (accusata tra l'altro di aver prima truccato i conti per il governo di centro destra greco permettendo un accesso truffaldino all'euro e poi aver speculato sul debito greco) è un ambiente tossico. "Lascio dopo dodici anni perchè questo è un posto dove i manager pensano solo ad arricchirsi e i clienti vengono irrisi nell mail ad uso interno e vengono definiti dei pupazzi". Immaginiamo, quindi, che parere possono avere alla Goldman Sachs dei deferenti uomini politici che votano in favore di leggi che permettono di mantenere sempre più alto il tasso di profitti di questa merchant. Ma l'aspetto che più intristisce è la chiosa che, nella parte iniziale del resoconto, la giornaslista del Corriere on line compie.

 

Leggiamo:

 

MILANO - Lettera choc al New York Times di un banchiere dimissionario sulla vita in Goldman Sach una delle prime banche d'affari nel mondo, il gruppo finanziario che ha dato tanti "tecnici" ai governi americani (e non solo americani), in particolare all'amministrazione Obama, a partire da Tim Geithner, il ministro del Tesoro.

 

Va notata quella mirabile parentesi. In quel "(e non solo americani)" ci sarebbe, tra gli altri, come si può ricavare da wikipedia l'attuale presidente del consiglio italiano Mario Monti,  che "tra il 2005 e il 2011 è stato international advisor per Goldman Sachs e precisamente membro del Research Advisory Council del Goldman Sachs Global Market Institute". Ma c'è anche l'attuale numero uno della Bce, Mario Draghi (sempre da wikipedia Dal 2002 al 2005 Draghi è stato vicepresidente e membro del management Committee Worldwide della Goldman Sachs).

 

Ma per la collega del Corsera tutto questo merita solo una parentesi. Leggere tutto

per credere

 

 

MILANO - Lettera choc al New York Times di un banchiere dimissionario sulla vita in Goldman Sach una delle prime banche d'affari nel mondo, il gruppo finanziario che ha dato tanti "tecnici" ai governi americani (e non solo americani), in particolare all'amministrazione Obama, a partire da Tim Geithner, il ministro del Tesoro. Nel j'accuse che il quotidiano newyorkese pubblica nella pagina degli editoriali e dei commenti (guarda il pop-up) Greg Smith, già capo dei derivati in Europa, Africa, Medioriente, parla di «un ambiente mai stato più tossico e distruttivo come ora» e che avrebbe smarrito l'etica e la cifra che un tempo ne faceva un' istituzione del paese. «Niente di illegale» precisa l'autore, ma il «fare soldi» sembra oggi l'unica mission da inseguire anche a spese dei clienti che alcuni in banca chiamerebbero «muppets», pupazzi. Un attacco frontale alla gestione di Lloyd Blankfein, il Ceo, che scrive a sua volta ai dipendenti: «Che delusione, nulla di vero».

WAKE-UP CALL - «Oggi è il mio ultimo giorno a Goldman Sachs e dopo averci lavorato per 12 anni posso dirvi che l'ambiente nella banca non è mai stato più tossico e distruttivo di adesso». «Una volta Goldman stava dalla parte dei clienti», tempi andati secondo il manager che sostiene di aver «visto almeno cinque dirigenti definire i loro clienti muppets, pupazzi, nelle email interna. Una volta la leadership dipendeva dalle idee e dagli esempi che davi «ora se generi molti soldi per l'azienda, vieni promosso». «Spero che questa possa essere una sveglia per il consiglio d'amministrazione, il cliente deve tornare a essere il punto focale dell'azienda»

LA REPLICA - «Non occorre neppure dire quanta delusione c'è per le affermazioni di questo individuo, affermazioni che non rispecchiano i valori dell'azienda e la sua cultura» ha scritto poi Blankfein in un messaggio a doppia firma con il direttore operativo Gary Cohn. «Tutti hanno diritto alla propria opinione» e che in un'azienda con oltre 30.000 dipendenti ci possono essere malumori è prevedibile «ma è una cosa spiacevole quando uno parla a voce più alta del normale e dalle pagine di un giornale». Blankfein e Cohn concludono scrivendo che «non siamo perfetti, ma rispondiamo in modo serio e concreto se c'è un problema, lo abbiamo dimostrato con i fatti» anche durante la crisi, quando la banca «ha avuto la sua parte di problemi».

 

 

 

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14 febbraio 2012 2 14 /02 /febbraio /2012 21:55

BOLOGNA - Il no di Mario Monti alle Olimpiadi a Roma è sintomatico delle grandi difficoltà che ha questo governo a fare cose che vadano al di là della banale gestione dell'ordinario. Il presidente del consiglio, tornato dagli Stati Uniti, aveva detto che adesso avrebbe pensato a cambiare gli italiani e invece, proprio dalla faccenda Olimpiadi, abbiamo capito che il modo di fare italiano, caratterizzato dall'ignavia, ha contagiato lui e ha permesso però a noi di guardare a fondo le potenzialità del suo mandato. Che sono di bassissimo profilo.

 

Vediamo rapidamente: da Italia '90 ai Mondiali di Nuoto del 2009 tutte le grandi manifestazioni sportive italiane si sono risolte per lo più in un colossale fiasco. Unica costante: hanno arricchito i potentati di riferimento, le lobbies che di volta in volta hanno investito, grazie ad importanti entrature e lottizzazioni politiche, in quegli affari che non presentavano rischi: garantiti dallo Stato, a loro affidati proprio dallo Stato. Ai cittadini e ai territori sono rimaste, il più delle volte, le carcasse di quelle operazioni, spesso, mai utilizzate, oltre ai debiti diventati di volta in volta tasse e accise. La frenesia di qualche giornata di grandeur non ha per nulla pareggiato i conti: qualche albergatore felice, alcuni ristoratori soddisfatti, mentre chi ha programmato speculazioni, acquisizioni e grandi commesse è andato via col malloppo. Questi pochi fortunati non hanno poi nemmeno reinvestito i loro profitti in Italia o in prodotti o servizi destinati ad aumentare lo spessore economico dei territori trasformati da quei grandi eventi. Quei soldi sono finiti in mille rivoli, quando non hanno ingrossato i capitali e i profitti dei padroni di riferimento.

 

 Le figure che si stagliano su tutte in questi anni di sacco sportivo dell'Italia sono quelle di Luca Cordero di Montenezemolo, Evelina Christillin e Guido Bertolaso, protagonisti di Italia '90, I mondiali al Sestriere e i Mondiali di Nuoto. Inutile ripercorrere fatti e misfatti. Rappresentano le punte di diamante dei sistemi imprenditoriali più potenti del nostro paese che, di volta in volta, hanno dominato, si sono imblasoniti, hanno determinato politiche sportive, politiche sul territorio, abilissimi e speciali nel solcare il mare della politica e degli affari in nome (mai dimenticare come la spacciavano) di una missione per l'Italia.

 

L'incubo della Grecia, avvitatasi in una crisi drammatica esattamente dopo aver trasformato l'occasione olimpica del 2004 in un'opportunità per i gruppi profittatori di vivere le loro giornate di grazia e di profitto, è stato un monito troppo forte per Mario Monti che, evidentemente, non ha invece guardato a Barcellona '92, trampolino di un modello economico che, solo di recente e per altre ragioni, si è appannato. E allora per paura delle rapine, che cosa fa il nostro geniale e potente presidente del consiglio, colui che fino a qualche giorno fa minacciava di cambiare gli italiani? Semplice, chiude le banche.

 

Il no alle Olimpiadi (che pure si possono svolgere anche soltanto attraverso le garanzie dei privati, vedi Atlanta '96, dove il governo federale non tirò fuori un cent) svela quello che tutti temevano: questo governo è stato pronto a fare ciò che qualunque ragioniere avrebbe fatto persino con minor titubanza, mettere le mani alle pensioni, allungare la vita lavorativa di ciascuno di noi e imporre nuove tasse di effetto depressivo, ma non è capace di controllare questioni complesse e determinanti: quelle che permettono al nostro paese di tirarsi su.

 

E' facile dire no alle Olimpiadi. Difficile è dire sì alle Olimpiadi gestite come la grande occasione per rilanciare l'economia del nostro paese e rifondare l'etica d'impresa. Ci vuole coraggio, capacità e sapersi affidare non ai partiti legati ai potentati imprenditoriali che spartiscono e rubano, ma a persone serie, preparate e oneste. Eppure questo governo aspettava la fase tre che avrebbe dvuto significare il rilancio dell'economia, la ripresa. E quale migliore occasione che un evento che ci avrebbe messo nel 2020 al centro del mondo per un'intera estate, decisivo momento per un paese che ha ambizioni di rilanciare uno dei suoi asset fondamentali, il turismo? No, Monti, il pavido, ha detto che non ce la fa.

 

 E allora cosa sarà questa famosa fase tre? E quali saranno le grandi occasioni che la nostra economia sta cercando per rilanciarsi? Nessuno lo sa. Perchè per cogliere davvero una grande occasione, Monti, che non ha liberalizzato nulla, ha difesso le lobbies forziere di voti del centro-destra, facendo loro il solletico, avrebbe dovuto fare quello che in tanti si sarebbero aspettati. Dire no ai potentati legati ai nostri grandi gruppi di interesse e dire no ai partiti che sostengono queste oligarchie, privando tutti dell'atteso e previsto guadagno. Anzi, facendo peggio, avrebbe dovuto far vedere a questa gente che i fiumi di denaro sarebbero stati gestiti da altri in ragione degli interessi di una comunità e non per una parte di essa. Avrebbe avuto le banche contro, i partiti dell'ex maggioranza ferocemente contro, si sarebbe scatenata una guerra e un gioco al massacro in cui avrebbe avuto due possibilità: affidarsi ai soliti noti e trasformare l'investimento dello stato in un tripudio di furbetti oppure vincere e gettare le basi per la sconfitta delle forze storiche che in Italia hanno determinato negli ultimi decenni piani di sviluppo, processi di trasformazione del territorio e la natura dei rapporti di produzione. Avrebbe potuto perdere, ma anche cambiare il paese. Per non fare torto a nessuno, o per fare poco torto a tutti, ha preferito dire no. Così si spiega la furia degli ex Forza Italia che vedono sfumare affari e profitti, delle forze imprenditoriali che già pensavano al nuovo sacco e il sì soddisfatto di chi, da quella gestione sarebbe rimasto fuori, Lega in primis.

 

E allora di cosa ci rallegriamo? Di non aver avuto il coraggio di governare un evento-tipo, il grande appuntamento sportivo, solo perchè finora era stato gestito da mani ribalde? Monti sa che di quelle mani non può fare a meno. Meglio, nell'interesse dell'Italia, tenerle ferme. E chissenefrega se in questa maniera l'economia del paese va in stallo. Altro che uomo della provvidenza, questo Mario Monti è un Pilato, un Don Abbondio e non ha ha neanche la tragica statura letteraria di un Celestino V: quando ci ricorderemo di lui sarà davvero come un balenare d'ombre. Con questo gesto si è solo  iscritto di diritto nella parte in maschera di colui che fece per viltade il gran rifiuto. Ma non finirà in nessuna terzina incatenata. Sarà solo una metafora vivente di una certa modesta storia italica, priva di rivoluzioni e di teste tagliate. Casomai piena di qualche scrollata di spalle e di coltellate alle medesime. Ma questo significherà lo stesso fallimento: prima morale, poi economico.

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5 febbraio 2012 7 05 /02 /febbraio /2012 12:42

BOLOGNA - Dopo la riflessione a volo d'uccello sulla figura  del professore Monti, incarnazione del grigio lombardo di provincia, il caro collega Disks, ci ha inviato un post che indugia sulla maschera del politico lombardo, sempre della provincia di Varese, il Bobo, dedicato a Maroni, leader di minoranza della Lega Nord. Riceviamo e entusiasticamente pubblichiamo.

 

Come osserva implicitamente il titolare di questo blog attraverso la demolizione del mito posticcio di Mario Monti, ogni paese obbedisce alla propria tradizione culturale. Da noi il filone goldoniano si conferma inesauribile. La televisione, vera artefice dell’unità d’Italia e al tempo stesso certificatrice della sua perpetua divisione, produce di continuo tipi antropologicamente sempre più sofisticati, ad uso, appunto, dell’antropologia regionale. Monti è il docente bocconiano, che prova a fare le battute e non gli vengono, così come il suo predecessore era la macchietta dell’ilare industrialotto brianzolo, travestito da statista.

 

Si tratta, in effetti, di due maschere regionali: tel chì il Monti, il prufesur l’è minga un pirla, tel lì il Berlusconi, ma va a ciapà i ratt, balabiott. Però, antropologicamente parlando, il cumenda gradasso delle barzellette non può essere catalogato soltanto come un personaggio tra i molti della commedia dell’arte. Alla sua maschera - "Berluscone" lo smargiasso lombardo - Goldoni non avrebbe certo negato il ruolo di protagonista.

 

 Il canovaccio è da perfetta commedia degli equivoci: dentro c’è molto Plauto. In breve. Mario detto Ciccio, cialtrone e mitomane da osteria non privo di crudele malizia e alieno da scrupoli etici, si arricchisce a dismisura e assurge a politico internazionale per un’incredibile catena di assurdità, prima che la vanità e la lussuria lo perdano, smascherandolo e restituendolo infine agli occhi del volubile volgo, non più foderati di cotoletta alla milanese, al primigenio status di gradasso chiacchierone.   Il fatto qui rilevante è che il ganassa, lungo la sua parabola tuttora in corso, asseconda la vocazione di piccolo chimico e sdogana al governo un bestiario degno di un caravanserraglio, da lui domato a piacimento col denaro, col frustino del padrone e con gli ammiccamenti dell’impenitente goliarda. Compongono il circo tipi e sottotipi aderenti agli stereotipi etnici più abusati, ma quasi orgogliosi di incarnarli: fieri come fiere, spalancano fauci spaventevoli al vasto pubblico dei creduloni, che non ne nota i denti cariati e i capienti stomaci da sagra di paese.

 

 Sotto il tendone spicca, per grigiore e genuina volgarità, un animale di fattezze e grettezze comuni: il lombardus ridens, conterraneo del suddetto "Berluscone" e a lui spiritualmente contiguo. Un piccolo esempietto va riservato a buon diritto almeno a un esemplare di questa sottospecie governativa, che alligna all’ombra del potere anche in forza del luogo comune in voga da un ventennio: quello sul padano laborioso e disinteressato, figura antitetica al romano, scansafatiche e politico di professione, ergo ladrone organico alla Casta.

 

IL BOBO

Il Maroni Roberto detto Bobo, varesino come Mario Monti, soppianta nelle figurine Panini dei numerosi genii prodotti dalla fertile Lombardia un altro Bobo (oltre al Bobo calcistico lombardo d’adozione, il neoballerino Vieri): l’infelice milanese Craxi, figlio di cotanto scranno, schiacciato dal sempiterno ricordo del capostipite dei berluscoidi e dal latente senso della propria inadeguatezza. Invece il nuovo Bobo non è per nulla sfiorato dall’idea di non essere all’altezza delle notevoli ambizioni che lo animano. E se questo lo emenda dalla tristezza cronica del collega di soprannome, lo riveste pure, come la maggioranza dei berluscoidi, di una patina grottesca.

 

In gioventù indulge a frequentazioni sinistre (Democrazia Proletaria): presto disattese per imboccare la strada del secessionismo alla cassoeula con l’Umberto (Bossi), gli varranno la fama di uomo aperto a qualunque istanza, quando “Berluscone” gli affiderà nei suoi reiterati sgoverni i ministeri degli interni e del lavoro.

 

 Qui, però, non interessa tanto il cursus honorum, quanto la maschera regionale. Il Bobo è, pure nelle fattezze, l’avvocato di provincia, anzi di pianura: intelligentino e scaltrino, sgualcito negli abiti, nel portamento, nella barba, nella capigliatura e perfino nell’accento marcato, ma quasi mai fastidioso, ha l’abilità di fermarsi sempre sulla soglia del ridicolo, senza superarla. Non supererà mai, peraltro, neanche una mediocrità di orizzonti sociali mica tanto aurea.

 

Varese, che lo culla, è la riccastra cittadina di frontiera delle cartoline, con una squadra di basket che negli anni Settanta fa furore. Vi si vive bene: di là c’è la Svizzera per la benzina, di qua Milano per le serate e per le partite del Milan, in mezzo il Varesotto dei paesini e paesoni che sono stufi di pagare le tasse per i ladri di Roma. Il giovane avvocato dell’ufficio legale di un’azienda di cosmetici – reclama i mancati pagamenti - coltiva l’hobby del sassofono e intanto sviluppa un pragmatismo egocentrico: si fa paladino del crescente odio verso lo Stato patrigno. Salirà sul carroccio della Lega Lombarda, poi Lega Nord, con tanto di processo e condanna per un atto di insubordinazione verso quelle stesse forze dell’ordine che aveva diretto e che avrebbe diretto ancora da ministro, secondo consueto paradosso italiota.

 

Durante la lunga permanenza romana il Woody Allen del “Varesei” – tale è diventata nei ritornelli leghisti la terra d’origine, impoverita dalle insopportabili gabelle – ha modo di affinare l’arte oratoria. Nelle arringhe televisive, dietro la lente spessa ma dalla montatura trendy (da Andreotti alla Gelmini varrebbe la pena di tracciare una fenomenologia degli occhiali in politica), si atteggia a saggio amministratore e a saggio contraltare della deriva eversiva bossiana, salvo strizzare l’occhio al sedicente popolo padano negli appositi comizi rurali. La sua saggezza, in realtà, emerge più che altro nei confronti degli amici e delle amiche del "Varesei", che premia da tempo con poltrone e poltroncine nelle banche, nelle asl e nei gangli del potere locale, sicché la porzione di Varesotto a lui appaltata ormai sembra un Varesundici.

 

Il tratto distintivo del Bobo, ora che veleggia verso i sessanta e che appare assai peggiorato dalla consuetudine al comando, è in conclusione il parossistico degrado dei tratti dei suoi conterranei, inclini nei loro migliori prodotti originali o adottivi (vedi la famiglia Borghi, i mecenati dello sport locale) a generosità e lungimiranza e nei peggiori a ritenersi superiori alla folla, che guardano dall’alto in basso, perché loro hanno fatto i soldi e tanto le tasse non le pagano, perché non è giusto.

 

Il Bobo è di quelli che ridono delle proprie discutibili facezie ancora prima di averle completate. Non è sgangherato come il lecchese Castelli, né scurrile come il varesino del contado Bossi, né ignorante come il di lui virgulto Trota, né orchesco come il bergamasco Calderoli, né inetto come la bresciana Gelmini, né raggiunge il livello di spocchia del sondriese Tremonti. Ma è ormai un ganassa di periferia, un ras che si compiace di sembrare buono e giusto e di nascondere il proprio grigiore dentro il sax della sua vecchia band. L’altro varesino Monti, non meno grigio di lui, gli può insegnare meglio di tutti come si consegna uno Stato nelle mani delle banche. E Bobo l’apprendista, che cova malcelate aspirazioni di capo del governo, sta imparando benissimo.  

 

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4 febbraio 2012 6 04 /02 /febbraio /2012 12:09

BOLOGNA - La campagna mediatica condotta da Mario Monti, ex mite professore, è segnata in questi giorni da un continuo digrignare di denti. Prima l'infelice battuta sulla monotonia del posto fisso, poi l'attacco all'articolo 18 che farebbe fuggire gli investimenti in Italia, il tutto condito dalle minacce della ministra Fornero: riforma del mercato del lavoro anche se le parti sociali non sono d'accordo. I vecchi, incanutiti, (carichi di privilegi, stipendi e prebende) professori, ex baroni delle cattedre, ora baroni della politica, mostrano la grinta del tatcherismo anni Ottanta. E' il nuovo che avanza. Trent'anni dopo scoprono medicine economiche che hanno causato fame, disoccupazioni, crisi, hanno incrinato la solidarietà sociale, hanno reso i ricchi più ricchi e i poveri più poveri, hanno introdotto un modello culturale per il quale chi riceve un salario deve essere grato a chi lo elargisce. Questi professori, che nella loro vita accademica non hanno alcun merito, nessun rilievo scientifico, se non quello di essere stati i portavoci di potentissime lobby, ci fanno pure la morale.

 

Ma quello che più mi indigna nelle dichiarazioni di aggiustamento che questo grigio uomo lombardo ha pronunciato, dopo lo scivolone sulla monotonia del posto fisso, è una frase che dovrebbe essere uno squillo di fanfara che chiama alla rivolta i lavoratori, i partiti politici e i sindacati. Monti ha detto: "Finora da parte dei governi c'è stato troppo buonismo sociale". A parte l'idea di connotare il rispetto, quindi la considerazione, l'attenzione, comunque rivolta a categorie deboli, con un sostantivo ideologizzante, il buonismo, per rendere l'attenzione alle prossimità, a chi lavora, a chi è dentro un meccanismo che non può correggere, un approccio vacuo e per colorarlo di zucchero avariato, c'è un'altra questione. I governi che hanno preceduto Monti, e segnatamente i governi di destra, hanno condotto una sistematica demolizione del principio del rispetto sociale. Due questioni recenti recenti, legate al governo di Bossi e Berlusconi. Alle donne viene imposto un illegale clausola di autolicenziamento nel caso in cui dovessero rimanere incinta? Bene, Bossi e Berlusconi cancellano la norma per stroncare questo malcostume. La Fiat impone una svolta autoritaria ingannando tutti e tacendo omertosamente sui piani di sviluppo? I governi di destra tacciono a loro volta, mentre quando la Fiat va in America deve spiegare tutto: cosa fa e cosa produce, fino all'ultimo pezzo che dovrà uscire dalla catena di montaggio. Il giallo digrignare di denti di Mario Monti fa paura perchè evoca un modello a tavolino di scientifica soppressione di un pezzo di umanità. Lotta al buonismo sociale equivale all'idea che serve una cattiveria sociale. Quella che porta poi, in ragione di una scelta ideologica, il neoliberismo, alla soppressione di un modello di lavoro, di una funzione e di alcune professionalità, insieme ai lavoratori stessi, alle loro esigenze, ai loro valori.

 

Il contrario del buonismo sociale è il cinismo sociale. Questo è il manifesto di Monti. L'ha evocato per correggere la battuta idiota sulla monotonia del posto fisso. Del resto quando c'è un problema di comunicazione, chi commette una gaffe rimedia sempre dando fondo a quel repertorio sul quale si sente sicuro. Mario Monti è un lombardo triste, una tipologia che si contrappone, antropologicamente, nella sua categoria sociale, al cumenda borioso, fanfarone, persino simpatico, se poi, ad esempio, resta tale e non diventa capo del governo e va a rappresentare il suo paese di fronte a degli statisti veri. Noi abbiamo avuto prima il cumenda fanfarone e barzellettiere da club vacanze e poi il grigio lombardo. Il grigio lombardo, messo difronte alla necessità di essere anche un po' personaggio pubblico spendibile, oltre ai suoi diagrammi tratti dai manuali ideologici del liberismo, deve aver ascoltato il consiglio di chi gli ha suggerito di concedersi qualche battuta, ogni tanto. Ne è venuta fuori una cosa penosa: "Il posto fisso è monotono". Persino il catto-liberista Pierferdinando Casini, che ha giurato "perinde ac cadaver" fedeltà all'esecutivo della Goldman Sachs, ha preso le distanze da questo scivolone.

 

A Monti le battute proprio non vengono e non le sa proprio proporre, anche se gliene suggerissero di azzeccate. E allora di fronte agli sberleffi e alle indignazioni, ha scelto il conforto del mestiere. Il mestiere venuto fuori da anni di esercizio del ruolo di barone, di cattivo senza anima, di gabelliere, di tagliatore di teste, di lobbista diventato esecutore dei voleri dei più potenti, alla faccia di chi ci capita in mezzo: insomma il mestiere che gli viene da quello che ha sempre fatto, il fido esecutore del volere delle banche. E così, per surrogare la cifra stilistica che non gli è propria, lo humor, ha prodotto la magnifica frase: "Basta con il buonismo sociale". Questa espressione è il copendio di tutto un modo di agire. Bersani, parte del Pd che non si è già compromesso, cattolici con sensibilità sociale, a meno di non essere complici, glielo facciamo vedere un po' che è davvero ora di mettere da parte il buonismo sociale? E gli assestiamo tutti un bel calcio nel sedere. Così poi vediamo se la prossima battuta viene meglio.

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  • bartolozzi
  • Nato a Roma il 7-3-1962, giornalista
  • Nato a Roma il 7-3-1962, giornalista

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