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4 novembre 2011 5 04 /11 /novembre /2011 12:38

BOLOGNA - Il vertice di Cannes del G20 al quale è stata invitata, anzi convocata, la Grecia, ha sancito una verità. Un disvelamento. La libertà espressa dalle carte fondanti il diritto borghese è carta straccia, in realtà gli ordinamenti giuridici sono l'espressione di rapporti di forza espressi dagli establishment economici. Così come avevano ammonito le critiche all'economia politica e ai sistemi politici su di essa strutturati dalla metà dell'Ottocento in poi. Il Governo greco ha dovuto rinunciare ad un referendum (espressione più semplice, ma al tempo radicale, della rappresentatività nazionale) perchè l'espressione della volontà generale sarebbe andata in contrasto con gli interessi del capitale finanziario. E' semplicemente questo. I cittadini greci, ingannati da una congiura tramata ai loro danni, da merchant bank (come la Goldman Sachs di Draghi, vicepresidente di questa organizzazione dal 2002 al 2006) e governo della destra e liberista greco (che hanno riscritto il debito della nazione, narcotizzandolo, ma esponendolo ancora di più agli appetiti delle speculazioni finanziarie) non possono più decidere "democraticamente" sul loro destino. Non possono dire sì o no, non possono esprimere il loro personale convincimento su una questione così profonda e strategica che riguarda il loro avvenire puntuale e minuto, oltrechè generale della nazione. E questo perchè le espressioni politiche e istituzionali del capitale finanziario mondiale glielo impediscono. Hanno un bel dire le muse del liberalismo democratico che in realtà, vedi Polito sul Corriere della Sera proprio di oggi, i cittadini possono scegliere se accettare gli aiuti o no (lui si riferisce all'Italia), se accettare o no il sistema al quale siamo agganciati. Polito sostiene: scelgano pure (gli italiani), basta che sappiano poi assumersi la responsabilità delle conseguenze.

Bene, il ragionamento di Polito già in Grecia non funziona. I greci non possono scegliere  (è emblematico che sia accaduto per una comunità, paradigma culturale dell'idea di democrazia). E' stato impedito al governo greco, legittimo rappresentante di un popolo, formatosi secondo le regole della democrazia borghese, di far esprimere ai propri cittadini una volontà, con le regole democratico-boghesi, cioè il referendum, che riguarda il proprio futuro. Alla faccia del liberalismo. E' la prova che, quando a rimetterci sono le istituzioni economiche (quindi le banche) che hanno prestato i soldi, secondo un patto fasullo, avallato da una parte del sistema al quale loro riferiscono, si deve fare a meno della volontà popolare. Se a rimetterci sono i cittadini stessi, invece, le regole possono essere applicate. Sono questi i valori universali della democrazia?

La situazione italiana varia di poco. In Italia il debito pubblico è stato acquistato (per circa il sessanta per cento) da investitori istituzionali italiani. Insomma prevalentemente ce la vedremo tra di noi. Anche se in termini assoluti quel 40% vale molto più di quello greco per gli investitori istituzionali stranieri.

Ma secondo il ragionamento di Polito nessuno ci obbliga a seguire le indicazioni della Bce e degli altri organismi sovranazionali che ormai governano l'Europa (e peggio ancora se accettassimo l'aiuto infido del Fondo monetario internazionale). Solo che poi non è così. Da noi, in caso di default controllato, non si potrebbero aiutare le banche per aver sostenuto il debito pubblico italiano, perchè sarebbe solo una partita di giro, dove a mancare sarebbe il quantum riferito a quel debito che lo Stato affida proprio agli investitori. Il giornale, il Corriere della Sera, sul quale scrive Polito, è l'espressione di quella alleanza fra imprenditori, banche, assicurazioni, che è garante della solvibilità delle esposizioni di chi sta concorrendo (dietro lauti profitti) al finanziamento del debito italiano. Quel blocco della democrazia che la Grecia in maniera macroscopica subisce a livello internazionale (facendo svelare la natura anti-democratica di questo sistema, anche secondo le regole degli ordinamenti liberali) noi lo subiremmo prima di tutto a livello nazionale. A meno che, una straordinaria opposizione sociale facesse saltare questo tappo. E' la posta in gioco e lo scenario che abbiamo davanti. E' la vera scelta che, poi, Polito, non esplicita. Ma che, di disvelamento in disvelamento, alla fine emerge. O le regole e le espropriazioni imposte dalla Bce oppure opposizione sociale.

 

PS Un mio carissimo amico mi chiede in che consista l'opposizione sociale. o meglio con quali obiettivi. Chiarisco in grandi termini: opposizione sociale per un default controllato e che determini una diversa gestione delle risorse e delle responsabilità in ordine a chi ha creato il nostro debito, rispetto a quanto indicato dalla Bce

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31 ottobre 2011 1 31 /10 /ottobre /2011 16:54

BOLOGNA - Non ho letto "Sulla lingua del tempo presente" di Gustavo Zagrebelsky dove ci sono riflessioni importanti riguardo la trasformazione del lessico, politico, filosofico, giuridico e sociologico condizionato da un'offensiva populista e da una deriva di destra, economicista, tecnicista e aziendalista.

Al di là delle categorizzazioni non può sfuggire che il fenomeno abbia toccato ogni ambito. E questo non impone un giudizio morale, ma una costatazione. Soprattutto il linguaggio della politica nell'area della sinistra è condizionato dall'egemonia di un lessico che attinge alla cultura imperante. Quella del predominio del mercato, della finanza capitalista, individuata come cultura egemone. E' il risultato di una spoliazione senza sostituzione della cultura alternativa al modello unico, è il risultato dell'offensiva degli anni Ottanta, in nome della reaganeconomic, dei populismi, degli aziendalismi i cui ultimi arruolati sono i plotoni guidati da Matteo Renzi. Renzi nella performance, alla Leopolda di Firenze, denominata Big Bang, ha condito la sua proposta politica con una teatralità attinta al modernismo di ispirazione cibernetico, riscoperto a causa della recente morte di Steve Jobs. Ma, come formula, è ormai vecchia di almeno dieci anni. Tutto quello che dice è infiorato da espressioni ormai ampliamente passate sotto la serrata critica di intellettuali che da tempo maneggiano queste materie con ben altra cura. Il wiki-Pd, la politica 2.0 sono ormai un modello che, a se stante, è considerato vulnerabilissimo e quindi pericoloso per la democrazia e per la stessa libertà di contenuti che la cosiddetta cultura liberale vorrebbe sostenere. Basta guardare un testo del 2008, scritto da un olandese, Geert Lovink, "Zero Comments" (Bruno Mondadori, 2008), per rendersi conto di come Renzi sia immerso in una modalità già vecchia, spacciata per nuova. Insomma è un bignami per chi è rimasto  indietro negli ultimi quindici anni. Dietro questa terminologia, come detto da più parti, uno zibaldone di concetti, ispirati alla deregulation, al liberismo più sfrenato, senza nemmeno la profondità di studi che almeno la coppia Alesina-Giavazzi ha comunque nel suo background.

Ma Renzi è Renzi e considerarlo un nemico di classe da parte della nuova immensa categoria economica (che raggruppa, artigiani, salariati, precari, disoccupati, professionisti senza codici e riferimenti nel modello unico, contadini e piccoli imprenditori nei servizi, nell'agricoltura, nell'edilizia) non sarebbe certo sbagliato.

Il problema è che l'utilizzo di metafore tratte dal mondo dell'impresa sono trasmigrate ovunque. Anche chi non è d'accordo con Renzi, vedi la Serracchiani e altri leader dell'area riformista sembrano accettare supinamente l'ideologia dominante. Non si tratta di fare delle reprimende e di bandire un lessico "satanico", si tratta invece di sottolineare una condizione. Espressione e contenuto si intrecciano in un sistema valoriale dove i vocaboli rivelano, a volte, più di quanto i concetti espressi nascondano.

Serracchiani e altri esponenti del Pd, del sindacato e del giornalismo legato al cosiddetto riformismo, parlano, senza chiedersi perchè lo facciano, di "offerta politica", oppure "tentare un Opa" rispetto al proprio partito o movimento di appartenenza. Insomma l'economia di mercato è talmente penetrata nella coscienza di questi protagonisti della vita politica da rendere naturale l'uso di metafore che, invece, sono il prodotto di un'inconscia operazione ideologica. Così facendo si intendono anche naturali certi rapporti di produzioni, certe gerarchie sociali che naturali non lo sono affatto. Tutto questo rende assolutamente ingessati in una ideologia questi cosiddetti liberal-democratici e riformisti che parlano da anni, ormai, di valori  ispirati alla carte fondative dell'era borghese come dell'approdo naturale o come back-ground imprescindibile delle dinamiche sociali e politiche.

Ripeto, nessuna scomuncia o black-list contenente parole proibite, ma una semplice considerazione e presa d'attto: chi usa certe metafore è imbevuto di una ideologia aziendalista e economicista che, poi, non permette una analisi "libera" rispetto alle forme di produzione, ai domini che hanno determinato la società moderna. L'accettazione o meno dei modelli culturali è un fardello con il quale si deve consapevolmente fare i conti. Ignorare questa condizione, che riguarda la sovrastruttura, ma non è indifferente alla modalità del pensiero e della coscienza di porsi rispetto al mero fatto, rende meno acuta l'analisi e quindi lo status politico di chi la compie.

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19 ottobre 2011 3 19 /10 /ottobre /2011 10:17

 Ho l'onore di ospitare un intervento di giornalista di razza. Si chiama Disks e svolge il suo lavoro con indignazione e attenzione. In genere, come me, si occupa di sport. Potrebbe essere anche un grande (non grasso) critico televisivo.  Speriamo invii presto altri contributi.

 

di Disks

In base alla deriva perbenista dell’attuale informazione televisiva italiana, non c’era migliore interlocutore possibile nel governo, per spiegare la vicenda del sacco di Roma, del ministro Sacconi, uno che dice appunto un sacco di cose apparentemente ragionevoli: l’ex socialista craxiano imbarcato sul capiente carro berlusconiano è accomodante, sorridente, in teoria competente. Sacconi snocciola dati, ascolta le critiche, replica con fermezza e si atteggia a ossequioso cattolico, il che nell’ipocrita paese dei peccati altrui non guasta mai.

 Floris gli ha offerto il palcoscenico di Ballarò e lui lo sfrutta per accreditare la tesi della crisi economica globale, che tutto travolge e tutto rade al suolo, malgrado gli sforzi titanici suoi e dei suoi colleghi, noti titani della politica, appunto, nonché statisti riconosciuti, del calibro di Calderoli, Romano e compagnia blaterante, agli ordini del supremo genio catramato e del suo finto contraltare Tremonti. In pratica, teorizza Sacconi, chiunque manifesti in piazza la propria indignazione - perché non ha più lavoro, pensione, sanità, scuola, casa, speranze, futuro - è libero di farlo (in verità adesso molto meno, date le nuove restrizioni maroniane). Ma deve sapere che, così facendo, fornisce ai devastatori di professione, ai brigatisti del terzo millennio, la materia prima per il loro mestiere: infiltrarsi in qualunque corteo e distruggere le città. Non è meglio, dunque, restare al calduccio della propria stanzetta di disoccupato, di precario, di pensionato senza soldi o più semplicemente di indignato nel senso autentico della parola e aspettare che il governo più efficiente della storia della Repubblica risolva i problemi? Nel frattempo, con l’avallo del poliziotto Di Pietro (non era lui a dire che “la gente prenderà le armi”, se si continuerà a prenderla in giro?), lo Stato darà una lezione al terribile Er Pelliccia e ai suoi compari, cui toglierà la voglia di giocare alla guerra.

 Questa grottesca lettura della realtà postula davvero l’esistenza di un popolo bue, cloroformizzato da una televisione pigra e reticente: non quella controllata dal supremo genio catramato, sulla quale non vale nemmeno la pena di soffermarsi, ma la pochissima residua che si ammanta del titolo di oasi libera e pura: Floris e Fazio, per intenderci, ora che Anno zero è stato azzerato (ma chi avverte sul serio la mancanza delle dannose filippiche di Santoro?). Davanti alle telecamere del politicamente corretto, i governanti alla Sacconi sostengono con notevole impudicizia un’implicita equazione sulla violenza da strada: va tutta condannata a prescindere. Cioè è tutta uguale: quella effettivamente parodistica der Pelliccia, studente di un’università privata che forse si sta già vergognando della propria bravata da esibire agli amici su Facebook, e quella del signore anziano che vede Pannella e gli sputa in faccia con una spontaneità folgorante: gesto tanto più emblematico in quanto cancella in partenza, per esasperazione, ogni forma di dialogo. L’equiparazione tra i due atti è comoda, retorica e volutamente superficiale. Vorrebbe una società anestetizzata, assuefatta a modelli di vita vacui e privata del motore di ogni civiltà, dalla preistoria a oggi: la capacità di ribellarsi. L’Italia si sta ribellando, finalmente, perché si sente presa in giro oltre ogni limite sopportabile, e questa ribellione è sana, necessaria. Un giovane che non si ribelli alle storture della società è per definizione un vecchio. Un giovane che sopporti senza reagire la rapina delle proprie speranze è un automa. Un giovane che non senta l’impulso di prendere a calci nel sedere i politici che lo invitano a portare pazienza, perché è tutta colpa della crisi mondiale, è uno che accetta di avere come ministri Bossi, la Brambilla e la Gelmini, come sottosegretario la Santanché, come consigliere regionale il Trota o la Minetti. Forse Sacconi pensa che un ragazzo, oggi, se studia appena un po’ più della media e non ha come orizzonte il sogno di fare il tronista, abbia l’aspirazione di diventare come lui: da grande voglio fare il ministro signorsì, negare anche sotto giuramento le nefandezze del mio capo incapace e prendere in giro i cittadini.

 Per fortuna i giovani si ribellano ancora e in genere lo fanno in forma più seria e costruttiva der Pelliccia. Se però la violenza latente diventa quella dello sputo di un signore attempato e presumibilmente poco aduso a reazioni simili, significa che il confine tra l’uso della democrazia partecipata e la sua meditata rimozione, da parte del popolo, sta saltando. La democrazia è tale quando chi dovrebbe governare la pratica ogni giorno, rispettando i cittadini. Non lo è più quando chi dovrebbe governare resta incollato alla poltrona comprando parlamentari. Non lo è più quando chi dovrebbe governare rifiuta di prendere atto della propria acclarata inadeguatezza. Non lo è più quando chi dovrebbe governare paralizza da anni l’attività parlamentare, limitandola a leggi ad uso personale, del tutto irrilevanti per la collettività. Non lo è più quando chi dovrebbe governare nega per tre anni che l’Italia sia in profondissima crisi economica, salvo farla finire sotto la tutela dell’Ue.

Di fronte al furto della democrazia da parte di chi dovrebbe governare, non è strano che il cittadino decida di non continuare a porgere l’altra guancia: lo sputo a Pannella è frutto di una rabbia sempre più difficile da contenere e sempre più prossima a sfociare in reazioni imprevedibili e drammatiche, che solo i servi della disinformazione o i ciechi possono assimilare alle spedizioni dei black bloc. In quello sputo c’è una carica potenzialmente molto più devastante, per le istituzioni scricchiolanti, degli assalti alle vetrine e delle auto incendiate. Su questo pericolo devono indagare, per rendere una corretta informazione, i programmi di cosiddetto libero approfondimento. Invece obbediscono al format di una malintesa par condicio. Fazio fa interviste untuose ai potenti, che volentieri accorrono da lui. E Floris confeziona un guazzabuglio di inviti col misurino: il governante perbene (Sacconi), l’oppositore perbene (Renzi), la presidente di regione perbene (Polverini), l’economista donna dall’America che fa sempre scena, un pizzico di giornalisti di regime e non. Tutti questi troppi invitati parlano un po’, dandosi di volta in volta torto o ragione, ma senza mai entrare nel cuore della questione, con l’intermezzo della pubblicità o di servizi d’inchiesta aggressivi come un barboncino. Per la sacrosanta legge dell’audience, anche il pubblico viene sapientemente dosato: due bellissime signore stanno alle spalle dell’ospite dall’eloquio più debole (l’imbarazzante Polverini), nel caso in cui al telespettatore maschio venisse la tentazione di cambiare canale per non addormentarsi. C’è pure la sorpresa: un collegamento di pochi minuti con l’ex primo ministro spagnolo Aznar, tra i massimi statisti della storia di tutti i tempi, nonché grande amico di Berlusconi, al quale infatti dispensa un elogio finale così riassumibile: soltanto lui può tirare fuori l’Italia dalla crisi. Floris ridacchia soddisfatto: magari il supremo genio catramato si convince che questa non è una trasmissione faziosa e magari la prossima volta ritelefona (se poi butta giù, tanto meglio, fa più audience). Verrebbe voglia di sputare alla tivù, ma poi bisogna pulirla. Meglio spegnerla: almeno sta zitta, a differenza di Pannella. 

         

 

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17 ottobre 2011 1 17 /10 /ottobre /2011 00:39

Il commento di Valentino Parlato su "il manifesto" riguardo la giornata del 15 ottobre è fuori dal coro e fa riflettere. Al di là delle provocazioni provenienti da alcune frange addestratesi alla guerriglia urbana, è necessario ragionare di più su quanto accade in Italia e in Europa. Dice Valentino Parlato: "...nell'attuale contesto, con gli indici di disoccupazione giovanile ai vertici storici, era inevitabile che ci fossero le manifestazioni di violenza. Aggiungerei: è un bene, istruttivo che ci siano state. Sono segni dell'urgenza di uscire da un presente che è la continuazione di un passato non ripetibile. Le manifestazioni e le pressioni... chiedono un rinnovamento della politica...Ci dovranno essere cambiamenti nelle lotte sul lavoro e nel sindacato e nella politica economica... E' una sfida positiva agli attuali partiti di sinistra a uscire dal passato e prendere atto di quello che nel mondo è cambiato".

Lo schema riproposto da tutti: due realtà distinte, una violenta (o infiltrata) e l'altra non-violenta è davvero rappresentativa della realtà dei movimenti anti-liberisti, degli indignati? Prendiamo la Grecia: alle durissime manifestazioni di piazza che degenerano in scontri sempre più frequenti partecipano non solo le frange militarizzate, le avanguardie narcisistiche di cui parla (sempre domenica 16 ottobre) Michele Serra su "la Repubblica". Partecipano padri di famiglia, madri, anziani e pensionati ridotti alla miserie dalle politiche di latrocinio perpetrate ai loro danni. Perchè lo fanno? Chi li ha imbrogliati?

Il New York Times sostiene che la Goldman Sachs, tra le più potenti banche d'affari mondiali, aiutò il governo di centro-destra della Grecia a nascondere i propri debiti, procrastinando i pagamenti grazie agli acquisti di "derivati" e opzionando rendite future (autostrade, turismo, casinò, etc.) a garanzia del buco sulla sanità. Tutto fatto in maniera tale che non ci fosse la parola "debito" su queste operazioni, ingannando così, oltre ai cittadini, anche gli stati dell'Unione che permisero l'ingresso nell'euro della Grecia. Accadde nel 2001 e Draghi divenne vice-presidente della Goldman Sachs nel 2002 (nel 2006 arrivò alla Banca d'Italia). La Grecia da allora fu sollecitata sempre più impellentemente a rientrare, anno dopo anno, da quelle esposizioni, comunque mascherate. Ora Draghi fra poche settimane sarà presidente della Bce che imporrà nuove strategie di rientro alla Grecia (questa volta con il timbro della comunità europea) stavolta dagli effetti sociali spaventosi. Se voi foste nei panni di un pensionato, di un impiegato statale, di un cittadino greco qualsiasi al quale è stato ridotto lo stipendio o la pensione del 30-40% o che ha perso il posto di lavoro e il sostegno del welfare, cosa capireste, conoscendo la biografia di Draghi? E cosa pensereste degli obblighi che deriverebbero dai nuovi diktat imposti dalla Bce? E se accadesse, come è capitato in Italia,che dopo, per esempio, anni di lotta e di proposte civili e pacifiche, come quelle sulla cosiddetta riforma Gelmini, non vi venisse mai concesso neppure uno spiraglio di trattativa o di dialogo, cosa capireste della politica e della utilità della politica per risolvere le grandi questioni dalle quali dipende il futuro di tutti?

Si affacciano sulla scena dei conflitti sociali generazioni e pezzi di società che non hanno fatto tradizionalmente parte di queste dinamiche. Sono stati catapultati in questo scenario improvvisamente infernale dalla crisi e da una realtà che loro nemmeno immaginavano o di cui percepivano a mala pena la capacità di dominio. Se la politica è sorda e cieca, se la politica ripete stessi protocolli, come potrà rappresentare una soluzione per chi ha di fronte la disperazione e si affaccia solo ora alla ribalta del conflitto sociale, oltretutto da disperato? E chi è disperato rischia o no di abbandonarsi a pratiche demolitive del presente e di ogni prossimità, visto che la politica gli garantisce solo inesplicabili sconfitte? Ecco da dove nasce la risposta distruttiva, persino nichilista, alla frustrazione sociale.

I giornali di oggi sono pieni di calcoli: milioni di euro di danni causati a Roma dalle violenze del 15 ottobre. La macchima distrutta del dipendente statale, le devastazioni a piccoli beni privati o a strumenti di utilità pubblica sono uno schiaffo a chi soffre di questa crisi, è chiaro. Ma chi parla più dei miliardi di danni causati da truffe come quelle dei derivati, dagli imbrogli delle agenzie di rating che hanno classificato come buoni prodotti finanziari marci, inducendo alla miseria milioni di piccoli risparmiatori? Chi ripaga delle sofferenze e della povertà causata dall'azione di capitalisti un tempo osannati anche dalla Chiesa, come Calisto Tanzi? E quando si dice che i teppisti non pagano mai, si pensa al fatto che i manager che determinano scelte fallimentari e improduttive continuano a vedersi aumentare senza controllo i propri premi e benefit sui quali nemmeno pagano le giuste tasse? E dei governi che hanno ricapitalizzato le banche responsabili della bolla speculativa del 2008, cosa pensa il disoccupato, o il capo- famiglia che non riesce a far fronte nemmeno più alle spese alimentari? E cosa ce ne facciamo di chi ha diffuso titoli tossici ed è rientrato attraverso fondi salva-banche dei propri latrocinii e approfitta di questa nuova disponibilità finanziaria per stringere attorno ai debiti degli stati (che hanno ripianato i buchi delle loro truffe) un laccio sempre più soffocante, tanto da determinarne anche le condizioni politiche e sociali di risanamento? Ci meravigliamo allora che a qualcuno truffato, emarginato, colpito e privato della speranza e del futuro venga in mente di dar fuoco a tutto?

Diceva un vecchio e saggio comunista milanese a proposito degli sbocchi razzisti e discriminatori di certe realtà di disagio nel nord Italia: "Ma se non stiamo dentro i processi sociali che, per esempio, determinano una ribellione contro spaccio e malavita, o concorrenza fra poveri per le soluzioni abitative o i licenziamenti, degrado ambientale, non potremmo poi intervenire quando questi processi prendono direzioni immature, irrazionali o addirittura razziste. Faremmo solo del moralismo, per giunta inascoltato". Se invece dentro le rivendicazioni che partono da alcuni bisogni si è presenti per davvero, sarà più facile contrastare derive razziste che danno una risposta di pancia al tema della vivibilità del territorio o insensatamente violente nei conflitti sociali sul lavoro. Questa è la posta in gioco per la sinistra: non i balletti attorno ai vari Draghi, Colaninno, Marchionne o la ricerca di un'unità purchessia con gente come Bonanni, o l'inseguimento di chimere dei rottamatori con il vizietto delle visitine ad Arcore. Da questa crisi alcuni calcolano di uscirne più ricchi e potenti, altri temono di diventare più poveri e emarginati. La questione è semplice: bisogna scegliere con chi stare.

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16 ottobre 2011 7 16 /10 /ottobre /2011 02:58

I gravi fatti di Roma impongo una riflessione. Dalle prime dinamiche degli scontri si ricava l'impressione che quanto accaduto in occasione della straordinaria mobilitazione degli Indignados sia una replica, senza lutto, di quello che accadde a Genova nel 2001.

Ci sono alcune differenze, ma tante similitudini, come le tattiche utilizzate nella gestione dell'ordine pubblico. Aver lasciato agire, in un primo momento, gruppi di specialisti della guerriglia urbana  ha di fatto poi consegnato agenti e manifestanti  ad un massacro tutto da gestire mediaticamente. E infatti un governo moribondo ha visto questa giornata un po' come vide il terremoto dell'Aquila. Occasione di consenso.

Differenza fondamentale con Genova è che la gestione della giornata non è stata affidata, a differenza di quanto accadde al G8, ad un organismo sovranazionale, condizionato dai diktat Fbi che aveva, dopo Seattle, un conto da regolare con il movimento no global (questi diktat sono venuti a poco a poco alla luce nel corso degli anni) A Genova ci fu una evidente volontà di scontro, scientificamente messa in atto. Stavolta più semplicemente non si è fatto nulla per evitare il peggio, è poi si è dato il peggio quando la situazione è sfuggita di mano.

In questo periodo di vacatio della politica (come può accadere nell'ambito di altri pezzi dello Stato) ogni potere, piccolo e grande che sia, cerca di conquistarsi dei vantaggi. Esiste, forse in qualche apparato a presidio dell'ordine pubblico, l'idea di accreditare come criminogena l'opposizione sociale (per facilitare poi il proprio compito o attribuirsi dei ruoli di mediazione sociale). Il governo moribondo non ha avuto problemi ad accodarsi a questa opzione.

Roma 2011 e Genova 2001: cosa c'è di simile.

Tutte le redazioni dei giornali sapevano, attraverso fonti ascrivibili a carabinieri, digos e guardia di finanza che sabato a Roma sarebbero arrivati gruppi organizzati, 400-500 persone, che avevano programmato un pomeriggio di guerriglia. A differenza di altre occasioni, quando il Ministro Maroni, ad esempio, aveva lanciato allarmi ingiustificati (vedi manifestazione nazionale Fiom), alimentando paura, stavolta non è accaduto niente di tutto questo. Mentre i pericoli c'erano davvero ed erano stati puntualmente segnalati. Accadde così a Genova.

Nessuno ha cercato di anticipare, bloccare, prevenire l'afflusso di black bloc puntualmente rilevato dal monitoraggio di siti web, canali twitter e comunicazioni fra gruppi di guerriglieri metropolitanti, peraltro ampliamente infiltrati e "attenzionati": Esattamente come accadde a Genova.

Durante la manifestazione gruppi facilmente riconoscibili da una dotazione indispensabile per gli scontri di piazza (cappucci, martelli, bottiglie, bastoni, recipienti per liquidi infiammabili, materiale pirotecnico o esplosivi soft) è stata fatta sfilare e aggregare senza problemi agli oltre centomila partecipanti.

Per più di un'ora - come a Genova - i gruppi organizzati hanno agito in maniera indisturbata colpendo obiettivi prima marginali (automobili e qualche vetrina), poi, in un crescendo, addirittura locali del Ministero della difesa. Ma, poche decine di minuti prima, il prefetto aveva assicurato che la situazione era sotto controllo.

Mentre le frange organizzate si staccavano dal corteo e agivano, montava il tam tam dell'informazione (i grandi siti web d'informazione, le tv satellitari), scatenando paura, caos. Tutto questo ha suggerito-imposto al governo l'immediata richiesta di interventi  per porre fine, purchessia, ad una situazione che stava creando allarme sociale e pressione mediatica. E' quello che qualcuno attendeva. Il crescendo indisturbato delle violenze e la diffusione delle informazioni sono stati l'elemento scatenante della successiva azione repressiva in controtendenza rispetto a quanto era stato fatto fino a quel momento dalle forze dell'ordine.

La stessa necessità di agire  con ogni mezzo non era stata avvertita, però, in occasione di un'altra giornata di guerriglia, ancora più grave, quella scatenatasi a seguito della morte del tifoso Gabriele Sandri, quando un gruppo di tifosi ultras dette addirittura l'assalto ad una caserma della polizia nei pressi dello Stadio Olimpico. Non era quello un fatto persino di natura eversiva? Allora non si scelse l'opzione adottata a Roma in Piazza San Giovanni, ci fu un contenimento "mirato".

L'azione delle forze dell'ordine - esattamente come accadde a Genova - è stata quella di spaccare il corteo. E' stata scelta via Labicana per creare un saliente all'interno del flusso di manifestanti e poi dedicarsi alla "bonifica" dell'area (Piazza San Giovanni era stata chiusa e circondata, lasciando libero solamente un piccolo passaggio controllabile verso Santa Croce).  Doveva essere il via ad una caccia all'uomo indiscriminata che solo parzialmente ha avuto il suo compimento. Ma ha avuto, comunque, l'effetto di impedire il regolare svolgimento della manifestazione con lo "sgombero" di Piazza san Giovanni.

Il cuneo realizzato dalle forze dell'ordine che ha spaccato il corteo in via Labicana ha però colpito la manifestazione nei pressi di nuclei più strutturati, quelli dell'organizzazione Attac (soprattutto romana) e presso gruppi di metalmeccanici presenti e guidati da alcuni leader di fabbrica. (Da ricordare che una parvenza di servizio d'ordine, si era materializzato lungo la parte iniziale del percorso, quando sono stati i militanti del corteo degli indignados e non polizia o carabinieri a fare il filtro tra il corteo e le aree vietate alla manifestazione. Nel frattempo le forze dell'ordine si tenevano a ragguardevole distanza per intervenire, semmai, nel caso in cui una parte dei manifestanti avesse puntato sui veri obiettivi sensibili da difendere a tutti i costi: principalmente l'area al di qua di via Nazionale, dalla sede della Banca d'Italia fino a Palazzo Grazioli).

In via Labicana forti e improvvisati cordoni di manifestanti hanno impedito per qualche tempo lo sfondamento della polizia permettendo ai manifestanti pacifici di trovare riparo un po'ovunque, attenuando quella mattanza indiscriminata di cui foto e testimonianze danno conto in altre aree e dove il caos per oltre mezz'ora è regnato  sovrano.

 Dove le forze dell'ordine hanno avuto mano libera sono accaduti i fatti più sorprendenti. Indignados hanno consegnato alle autorità alcuni "provocatori" colti in flagrante, ma in altri momenti sono stati caricati e spazzati via da altri plotoni, magari appartenenti ad armi diverse. Cariche di carabinieri, finanza e polizia, in sequenza, seguite da ripiegamenti e dalla concentrazione di forze in altre aree si sono mescolate a momenti di dialogo. L'azione dei provocatori e la replica tardiva e indiscriminata delle forze dell'ordine hanno comunque azzerato la manifestazione. 

Ma, come accadde in Piazza Alimonda, è stata un carosello improprio dei blindati (puntare i manifestanti con i veicoli per disperderli, come dimostrato da alcuni filmati,  è vietato dalla legge e dalle regole ufficiali d'ingaggio) e un contrattacco di chi in piazza stava ormai combattendo, a creare quella pericolosissima situazione che ha coinvolto alcuni mezzi dei carabinieri, quasi davanti l'imbocco di Piazza San Giovanni. Uno di questi blindati è stato neutralizzato e inciendiato, fortunatamente con la fuga immediata di chi era dentro. E che non ha reagito. E' stata questa la differenza con Genova (ammesso che lì, a sparare a Carlo Giuliani, sia stato davvero solo Mario Placanica).

A questo punto l'azione dei black bloc ha raggiunto l'apice della pericolosità: visto che c'erano di mezzo non solo beni e proprietà, ma uomini. Le forze dell'ordine dopo una serie di scontri, ritirate e riposizionamenti, hanno ripreso il controllo della zona prospicente piazza San Giovanni che è stata sbrigativamente ripulita.

Infine la caccia ai feriti. Come a Genova (Bolzaneto e Diaz con altre modalità, studiate e programmate scientificamente) si è data la caccia non tanto ai black bloc (che nel frattempo continuavano le loro scorribande tornando verso la stazione Termini, seminando distruzione) ma a chi invece si è chiamato subito fuori dagli scontri o è stato ferito in modo del tutto casuale. Con una serie di irregolarità e intimidazioni nei Pronto Soccorso, le forze dell'ordine sono entrate fino ai locali medici, inseguendo le ambulanze, chiedendo di poter identificare i feriti. Una pratica lontana da ogni regola e da ogni codice. Alla quale infermieri e dottori, per quanto nelle loro possibilità, hanno opposto degna resistenza.

E' evidente che questo governo, il ministro dell'Interno, il capo della polizia, dopo una gestione così fallimentare dell'ordine pubblico, in occasione di una manifestazione che altrove non ha prodotto disordini di rilievo, dovrebbero dimettersi. Evidentemente l'operazione Genova 2001 (allora eravamo all'inizio dell'era Berlusconi, tolto il prologo del 1994, poi ci furono Dini, Prodi e D'Alema) e Roma 2011 sono la drammatica colonna sonora di un serial politico impersonato dal proprietario di Mediaset. Ma la serie potrebbe avere repliche con altri protagonisti. Visto che il problema non è tanto Berlusconi, ma 1) l'opzione di repressione dei conflitti sociali con qualunque metodo, 2) la legittimazione delle sole proposte politiche che prevedano l'allineamento ai diktat delle strutture sovranazionali finanziarie e economiche, infine 3) la creazione di una zona grigia dove le frange di guerriglia organizzata si confondano con un'area della provocazione politica, di cui l'ex Ministro dell'Interno Francesco Cossiga ha sempre raccomandato l'uso.

L'incapacità della politica di essere, a differenza dei tempi di Cossiga, un interlocutore autorevole, rende pericolose e eversive certe scelte. Suggerite, magari, da quei poteri ormai autonomi che si cercano di ritagliare uno spazio e un dominio al di fuori degli equilibri dello Stato. La politica che non assolve alla sua funzione indebolisce il legame dei vari apparati con un vincolo valoriale che, comunque, lo Stato, governato dalla nostra Costituzione, possiede. Perciò alcune frange, magari legate agli apparati di sicurezza, possono agire in autonomia. O stringere per proprio conto alleanze. Con chi?  Dentro lo Stato o con settori dell'establishment economico e finanziario, a prescindere dagli obblighi formali verso l'Istituzione nel suo complesso. E' il pericolo che abbiamo di fronte se non si ripristina, sul serio, il Principato della politica.

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13 ottobre 2011 4 13 /10 /ottobre /2011 23:14

BOLOGNA - Su l'Unità del 13 ottobre,  un commento di Rinaldo Gianola mi ha sorpreso per la povertà di argomentazioni a fronte della serietà della questione. Gianola non è il primo collaboratore che passa. E' un vicedirettore che ha incrociato la sua professione con il racconto delle questioni industriali italiane.

Gianola critica Vendola il quale sul suo profilo Facebook ha criticato il suo partito romano che aveva  prodotto un manifesto in morte di Steve Jobs. Gianola usa del sarcasmo sul fatto che la sinistra si fa male su questioni irrilevanti, dividendosi anche su un inventore cool.

Ma la questione, ahimè, non è così banale. Non fosse altro che Sel, a Roma, credo, non produca più di dieci manifesti a tema all'anno. E quindi la scelta è così politica che ignorarne la portata - come fa Gianola - è semplicemente cattivo giornalismo. Vendola, pur essendo lontano mille miglia dalla mia idea di politica, stavolta ha ragione. Steve Jobs non può essere un mito della sinistra, la sua morte è stata accompagnata da una scarsa riflessione sul suo modo di imprigionare l'era digitale. 

Questo non lo dice solo qualche frickettone nostrano, ma lo sta ripetendo da decenni un'area formata da militanti, ricercatori, uomini delle professioni, pezzi della società civile americana che è stata semmai area di riferimento del partito democratico Usa. Quell'area che tanto piace a certi dirigenti del Pd e che, forse, trova proprio in Gianola un estimatore,  visto che ha redatto un libro-intervista con Colaninno.

Lo sviluppo dell'era digitale presenta gravi rischi per la democrazia (così come viene intesa dalle carte dei diritti, fondatrici, delle società occidentali, mica stiamo parlando di comunisti). Le piattaforme informatiche, lo sviluppo dei software proprietari e lo strapotere delle aziende che lo commercializzano, l'universo 2.0, sarebbero addirittura in contrasto con il primo emendamento Usa che garantisce libertà (in senso capitalista, s'intende). Una determinata idea del mondo digitale contrasterebbe proprio (attraversola mancanza di circolazione di prodotti intellettuali, determinate da certe rigidità imposte dai software proprietari) con lo sviluppo delle attività libere.

Da qui è nata la battaglia sul software libero, sull'open source, open access da qui si è riformulata la nozione di copiright, il famoso copyleft. Tant'è vero che uno dei padri fondatori del protocollo Gnu che proprio di questo parla, e fondatore della Free software foundation, è Richard Stallman, il più irriverente commentatore della morte di Steve Jobs. Altro che manifesto listato a lutto.

Ma riassumiamo i punti delle piattaforme (si trovano ovunque in rete) che ritagliano la nozione di software libero (E poi proseguiamo analizzando il nostro caso).

Libertà 0: Libertà di eseguire il programma per qualsiasi scopo.
Libertà 1: Libertà di studiare il programma e modificarlo.
Libertà 2: Libertà di ridistribuire copie del programma in modo da aiutare il prossimo.
Libertà 3: Libertà di migliorare il programma e di distribuirne pubblicamente i miglioramenti, in modo tale che tutta la comunità ne tragga beneficio.
(L'accesso al codice sorgente è un prerequisito di 1 e 3). Questo non è ovviamente in contrasto con la vendita e la possibilità di creare impresa nell'ambito del software libero. Anzi i benefici che questa concezione realizza sono a vantaggio soprattutto delle piccole e medie imprese. Sono cose che si trovano facilmente in rete e nella policy di Gnu.

 La politica di Apple ha costituito, proprio attraverso i beni prodotti dalle intuizioni di Steve Jobs, un salto di qualità: la libertà d'espressione, fatta di contenuti (foto, post, filmati), diventa immediatamente merce a costo forza-lavoro zero e rivenduta, senza alternativa, proprio ai creatori stessi della merce-contenuto, che si trasformano immediatamente in fruitori globali inseriti nelle loro belle piattaforme, nelle cosiddette comunità virtuali. Chi decide come e cosa far vedere sono proprio le grandi piattaforme che, nella logica del web 2.0, gestiscono relazioni e contenuti esercitando una mediazione che Internet non ha prima d'ora ammesso. Non a caso le grandi multinazionali dell'informatica stringono patti e alleanze in modo tale che Facebook, ad esempio, possa essere utilizzabile sui tablet Ipad. Oppure che Google effettui le proprie ricerche anche sui social network, oltre ad acquistare i titoli di tutte le produzioni editoriali il cui diritto intellettuale si è ormai perso nelle riproducibilità e spacchettature imposte da programmi di ricerca e di archviazione di cui tutti contribuiscono a creare una fisionomia e in cui tutti sono schedati in base ai propri gusti e scelte che diventano occasione per marketing diretto a vantaggio di aziende che utilizzano proprio queste scelte che noi facciamo e che diventano merce vendibile.

In questo ambito Jobs ci ha lasciato Icloud dove ormai è in rete (ma dove, chi lo sa, con che regole) l'intero sapere disponibile (dalla musica, ai propri pensieri privati, ai testi letterari, etc.), accessibile secondo regole, ma con un misterioso disegno di possesso e controllo. L'era dei tablet, del multitasking ha creato dei bisogni che, stavolta sì marxianamente, servono a soddisfare non quelli primari e naturali delle società e dell'uomo ma, al contrario, servono a soddisfare i bisogni del capitale: realizzare profitto, realizzare le condizioni per fare profitto e non sviluppare i bisogni che non servono queste due logiche.

Ecco, caro Gianola, questa è la posta in gioco. Non una pruderie sulla quale esercitare il proprio sarcasmo. E, quindi, se un leader di partito pone l'attenzione su questo problema è facile l'ironia, ma poi il problema resta. Tra l'altro (e questo sia detto anche nei confronti dei dirigenti romani di Sel) piegarsi all'idolatria un po' provinciale che spesso si accende in Italia, con tanto di lacrima, quando si è di fronte a eventi immaginifici dà davvero il senso della lontananza del nostro paese dalla capacità di discutere e fissare le emozioni da una parte e le analisi dall'altra, negli ambiti che sono loro propri. E questo è anche il limite del nostro giornalismo.


E poi le argomentazioni usate da Gianola fanno cadere le braccia: appartengono alla fattispecie ascoltabile in ascensore, in certi bar (mal frequentati però) e in coda alle poste. L'argomento principe contro Vendola (che, ripeto, non è il mio leader) è che non si può criticare una modalità produttiva se la si utilizza (sic).

Ecco i due principali capi d'accusa di Gianola.

1) Vendola critica Jobs e la politica Apple dal suo profilo Facebook. E perchè, non è criticabile Zuckerberg, che è capitalista e ha pure fregato il socio?
2) Vendola dimentica che Internet è lo sviluppo di un programma militare americano

1) Sarebbe come se uno pretendesse di smantellare Nietzsche e la sua critica al pensiero occidentale puntando tutto sul fatto che andava a Rapallo o Portofino e in Engadina, mete turistiche a la page. Oppure si ritenesse demolire  un leader politico che critica un piano industriale fondato sul trasporto su gomma con il fatto che si reca ad una determinata riunione in automobile o in pullman, oppure biasimare degli attivisti ecologisti che puntano l'indice sull'inaccettabilità del livello di smog e polveri sottili in una determinata città con l'argomento che respirano.

2) Invito tutti a leggere un testo "L'umanista digitale" (2010, Il mulino), percorre la storia dell'era digitale e le problematiche relative a Internet. Chi dice che Internet nasce da un progetto militare, ignora cosa è avvenuto prima e come, da quell'idea o meglio da quella funzione, ci sia poi stato - proprio per pianificare la sopravvivere alle conseguenze di un conflitto bellico - uno sviluppo in senso assolutamente democratico,  permettendo a ciascun nodo di essere aggiunto alla rete, secondo modalità indipendenti  dal tipo di software o di hardware del proprio nodo. Permettere a tutti di poter comunicare rende tutto più democratico. O no? Confondere poi Internet con il www è un'altra cialtroneria. Quest'ultimo nasce dall'idea di mettere in comune varie istanze di sapere ed è stato prodotto dal Cern di Ginevra che aveva necessità di far confrontare ricercatori e laboratori sparsi per il mondo. La rete quindi è nata con una precisa scelta: quella di essere incontrollabile da una istituzione centrale e collegabile a chiunque volesse stabilire una relazione. E questo ne ha permesso lo sviluppo globale.

Uno dei padri della cibernetica, così come la intendiamo noi, Norbert Wiener, ha subito intuito che questa disciplina fosse ideale per la comunicazione. Era un autentico democratico che organizzò circoli e seminari sul fatto che comunicazione e controllo fossero interconnessi, lavorò a fianco dei sindacati per manifestareil timore di quanto poteva accadere e quello che andava fatto per evitare una svolta anti-democratica dell'utilizzo delle tecnologie cibernetiche. Era in linea con la denuncia che fece Foucault riguardo la complicità di certi scenziati circa l'utilizzo dell'emergia atomica. Wiener era stato a tal punto capace di preparare il cammino di questa svolta che, fra i suoi allievi, crebbe quel Licklider, diventato poi capo del progetto Arpa da cui nacque l'idea di Internet. Wiener può essere sì un profeta visionario con un'idea di sinistra della nostra società. Ed era anche un genio: e aveva intravisto tutto. Meno che su questa questione un giorno potesse scrivere anche Rinaldo Gianola.

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9 ottobre 2011 7 09 /10 /ottobre /2011 11:46

L'intervista apparsa su "la Repubblica" domenica 9 ottobre, al ministro Mariastella Gelmini,

http://www.repubblica.it/scuola/2011/10/09/news/gelmini-22924331/?ref=HRER2-1

oggi quindi, permette di dire la parola fine rispetto alla polemica innescata dall'esilarante comunicato del Ministero stesso che autoincensava il governo per quel fantomatico tunnel fra il Cern di Ginevra e il Gran Sasso,  luogo immaginario dell'esperimento condotto nell'ambito del progetto Opera che ha posto di fronte alla comunità scientifica l'evidenza di neutrini che si muovono a velocità ultraluminarie.

http://www.repubblica.it/politica/2011/09/24/foto/i_neutrini_e_il_tunnel_della_gelmini-22158290/1/?ref=HREC1-2

Ecco cosa dice la Gelmini a  Corrado Zunino: "Al primo incidente di percorso ho pagato un prezzo alto, sono stata travolta dalla velocità di internet e dalla replica sbagliata: il secondo comunicato parlava di polemiche strumentali e non erano parole mie. Bastava chiedere scusa, e farci su un po' d'ironia. So che non esiste un tunnel da Ginevra al Gran Sasso, ho visitato il Cern e non ho visto tunnel. Bastava mettere quella parola tra virgolette e aggiungere tecnologico, "il "tunnel tecnologico" dentro il quale sono viaggiati i neutrini".

La conclusione della vicenda, legata ovviamente al costume, anzi, quasi al folklore, lascia sul campo di battaglia morti e feriti. Ovviamente nelle schiere dei politici (c'è da ridere a ripensare alle repliche astiose di quella parte della attuale maggioranza chiamata a difendere l'indifendibile), dei dirigenti e dei cosiddetti esperti di comunicazione scelti dal governo Berlusconi e dalla sua area di riferimento. Ma anche nel campo degli scienziati, fra quei cosiddetti uomini nuovi che dovrebbero bucare il ciarpame della politica (secondo gli anti-politici di complemento presenti in ogni schieramento) e essere individuati come garanzia di indipendenza.

La Gelmini è stata disintegrata a livello d'immagine da quel comunicato, il responsabile della comunicazione del ministero, Massimo Zennaro, resta in carica in tutti i suoi ruoli dirigenziali (direttore generale), del Ministero dell'Istruzione, meno quello relativo all'ufficio stampa (ne assumera altri grazie alle strizzate d'occhio di altre ministre) . Ma quelli che hanno fatto davvero una misera figura sono i due fisici scesi in campo in quelle ore di disperazione per sostenere il ministro e quell'area politica da cui dipendono, probabilmente, carriere, finanziamenti, incarichi e chissà cosa altro.

Ripercorriamo quegli interventi. Roberto Petronzio, presidente dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, curatore dell'esperimento sul superamento della velocità della luce, a proposito di chi critica il comunicato della Gelmini riguardo la "costruzione del tunnel tra il Cern e i laboratori del Gran Sasso, attraverso il quale si è svolto l'esperimento" parla di "polemica del tutto strumentale e pretestuosa. E' ovvio che il ministero dell'Istruzione si riferisse al tunnel lungo un km, che l'Italia ha contribuito a costruire, al cui interno viene lanciato il fascio di protoni". Mica è finita. "Il tunnel che conta, quello veramente importante, a cui si riferiva la dichiarazione del ministero - gli fa eco Giovanni Bignami, presidente Inaf, Istituto nazionale di astrofisica - è quello che passa sotto il Gran Sasso e che, in una caverna laterale, accanto al tunnel autostradale, contiene lo strumento chiave di questo bel risultato, cioé lo strumento 'OPERA'".

Prima notazione:  i due scienziati nel difendere l'indifendibile dicono cose opposte. Petronzio sostiene che il comunicato della Gelmini è chiarissimo: allude al tunnel di un chilometro costruito anche con i fondi italiani "al cui interno viene lanciato il fascio di protoni". E cioè quello del Cern, visto che l'esperimento ha avuto un trasmittente (Ginevra) e un ricevente (Gran Sasso).  Per Bignami, lo scienziato indipendente che occhieggia nei programmi divulgativi su Sky e in altre attività benemerite, dice esattamente il contrario: è ovvio che ci si riferisce "al tunnel che passa sotto il Gran Sasso e che, in una caverna laterale, accanto al tunnel autostradale".

Era tanto ovvio quel comunicato e nel riferimento al tunnel che Petronzio l'aveva individuato in Svizzera e Bignami in Abbruzzo (e la Gelmini oggi chiarisce che lei non si riferiva nè all'uno, nè all'altro, ma a un tunnel tecnologico, sic). Era tanto disperata ricerca in quelle ore di una schiena capace di sopportare il peso di certe castronerie che non ci si è preoccupati nemmeno di coordinare l'azione fra due eminenze del mondo della fisica. Resta la trisitezza nel constatare come due scienziati di questa portata o allocati in funzioni così alte, si siano prestati a difendere l'indifendibile (e ognuno a questo punto è libero di ipotizzarne le ragioni più o meno nobili). Ma questa è una faccenda che, da un altro punto di vista, fa persino vacillare la buona fede che si attribuisce a ciascuno di noi come abito mentale e anche quindi, nel caso specifico, nella validazione di una ricerca. Una persona è quello che è, onesta intellettualmente, sia quando è capo di un progetto scientifico, sia quando riceve un ordine da un'autorità. Se questi sono i nostri campioni, meglio ricominciare da capo. E far rifare pure tutti i conti. 

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6 ottobre 2011 4 06 /10 /ottobre /2011 00:54

C i sono tre interventi interessanti sulle pagine dei quotidiani di ieri, 5 ottobre. Mi preme segnalarli. Spero di riuscire a indicare anche i riferimenti web per la consultazione nel corso degli aggiornamenti successivi a questo che sto digitando. In ogni caso ne possiedo copia cartacea da consultare (dopo scannerizzazione) via posta elettronica.

L'intervento più legato all'attualità politica è quello di Loris Campetti su "il manifesto", l'intervistato è Fausto Bertinotti. Bertinotti spiega con l'efficacia metafora del treno perchè salire su un convoglio con il percorso già determinato dal tracciato dei binari non ha senso. Il treno è il governo e i binari sono quelli delle autonomie democratiche limitate dal potere monetaristico della Bce e dagli organismi privati-globali che sostituiscono le scelte dei grandi consessi democratici. La lettera dell Bce pubblicata sul Corriere della Sera che dà indicazione al governo italiano ha rappresentato un piccolo grande choc. Tutti si sono potuti rendere conto che la sovranità politica statuale è ormai limitata. La battaglia politica per il governo di uno Stato dell'Europa rischia di impegnare energie per conquistare un ruolo reso inefficace dagli oligopoli finanziari. Per Bertinotti però esistono delle antinomie, anzi dei veri e propri snodi dialettici (richiamo e riferimento che servirà per l'ultima segnalazione in rassegna stampa) che entrano in gioco in una fase politica dove tutto sembrerebbe consegnato ad un pensiero unico e ad un nuovo ordine prestablito.

La dialettica è tra opposizioni crescenti e caduta di consenso di quest'ordine da una parte e l'azione di dominio che quest'ordine esercita dall'altra.

La tendenza all'antipolitca da una parte e il ribellismo, in certi casi la rivolta (che per poter essere efficace deve organizzarsi attraverso connessioni e coalizioni sociali e quindi attraverso una cosnapevolezza politica) dall'altra.

La consapevolezza della fine della guida delle trasformazioni da parte di soggetti come partiti e sindacati da una parte e l'emergere del rifiuto come primo momento della negazione dell'ordine prestabilito dall'altra

La contrapposizione, in ambito sindacale e politico, fra due strategie. Da una parte quella indicata dai fautori dell'unità a tutti i costi delle organizzazioni dei lavoratori. Dall'altra quella indicata dai fautori dei diritti di rappresentanza nel mondo del lavoro e dai fautori della difesa della corrispondenza del diritto cosidetto universale-politico con quello della dignità e del controllo sia dei mezzi di produzione che della direzione delle scelte economiche nei reali rapporti di produzione esistenti.

 

Secondo intervento è quello del direttore di Micro-Mega,  Paolo Flores d'Arcais, su "Il Fatto Quotidiano" riguardo l'ingresso in politica degli imprenditori italiani: Della Valle e Montezemolo. Da filosofo e da storico della filosofia fa riferimento D'Arcais alla mistificazione che si fa dell'uso di società civile, termine plasmato attorno alle riflessioni prima di Hegel e poi di Marx. Ma in questo caso il termine "società civile" è impropriamente utilizzato per definire piuttosto l'establishment del dominio politico-economico, in una lotta per il potere che, evidentemente, riguarda la sostituzione degli interpreti di una funzione che deve restare (agli occhi di questa cosiddetta società civile) sempre la stessa. Aggiungo io: non a caso i meccanismi dell'anti-politica sono il terreno di coltura comune, come si sarebbe detto una volta, dove sono cresciuti Della Valle e Berlusconi. Basta confrontare gli slogan del primo Berlusconi o del Berlusconi del predellino con il manifesto di Della Valle (a pagamento) apparso sui suoi o su gli altri quotidiani. Il morente e il subentrante non hanno nessuna intenzione di modificare alcunchè: c'è solo una lotta per un avvicendamento, un cambio della guardia. Le differenze potrebbero essere nello stile (e bisogna anche vedere se ci sarà o meno un peggioramento), in qualche alleanza politica da costruire con minore o maggiore disinvoltura. Ma il dogma dell'esclusione del controllo da parte dei protagonisti sociali della produzione ed il nascondimento del reale dominio attraverso le leve finanziarie e gli indirizzi di politica e di politica economica, non vengono certo toccati. Di qui l'avversarione per la politica che, invece, rimetterebbe in gioco gli esclusi che l'ideologia di Berlusconi e Della Valle considera inadatti, dato che per loro il solo criterio di guida della cosa pubblica è aver mostrato capacità di sapere essere alla guida del capitale.

 

Terzo intervento è sull'Unità relativo alla querelle fra Vattimo e Ferraris, fra post-moderno e new realism. Come accennato tempo fa in un post rintracciabile su questo blog, la contrapposizione è fra la posizione di Vattimo (non esistono fatti, ma solo interpretazioni) con quella di Ferraris (i fatti hanno la loro autonomia e sono un tribunale per stabilire quali possano essere le interpretazioni false o ingannevoli, determinando un criterio di giustizia che vada oltre i condizionamenti delle varie forme di dominio). La terza via, proposta da Mico Capasso (dottore di ricerca presso l'Università Roma tre) individua nella dialettica il passo in avanti che potrebbe essere fatto partendo da questa polemica. Bisogna intendersi - sostiene - sull'interpretabile, e in ogni caso ci sono una rete di dati che, senza una loro disvelamento o una loro decostruzione, nascondono addirittura un più insidioso vantaggio che le forme di dominio costruiscono più o meno consapevolmente. Per comprenderli e per renderli vivi e non-nascosti o meglio non-velati questi dati vanno esaminati nell'effettivo esercizio della loro produzione e dei soggetti che la compiono. Insomma ermeneutica più indagine storico dialettica. Aggiungerei:  con grande attenzione - e mi riferisco a Althusser citato nel post di qualche tempo fa - a quel transindividuale che contempera soggetto e relazione coppia insindibile per lo smascheramento del dato-feticcio o dell'ente non dis-velato.

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12 settembre 2011 1 12 /09 /settembre /2011 12:11

Giancarlo Galan, ministro per i Beni e le attività culturali dell'Italia, non è deputato e quindi non ha diritto all'ambitissimo barbiere di Montecitorio. Taglio raffinato, costo "cinese", come quello offerto dai tanti artigiani dell'acconciatura venuti dal lontano Est che hanno contribuito ad abbassare i costi delle nostre spese dal barbiere o dal parrucchiere del settanta e ottanta per cento. Visto che lui alla qualità ci tiene (e anche al contenimento delle "sue" spese) chiede, di volta in volta, in prestito, il tesserino da parlamentare ad amici del Pdl. E s'imbuca. Perfetta sintesi di massimo risultato con un minimo sforzo. E non c'è voluto un investigatore particolarmente smaliziato a scoprire questo meccanismo. Galan, il ministro che ha più volte violentemente e giustamente polemizzato con la Lega, per quelle strizzate d'occhio (che ci costano milioni e milioni di euro) agli allevatori padani inadempienti delle intimazioni e delle multe Ue sulle quote latte, l'ha confessato in un'intervista al Fatto Quotidiano. Se uno che ha la percezione del bene pubblico utilizzato a fini di parte (come nel caso delle multe che gli italiani pagano per le quote latte che la Lega toglie ai suoi potenziali elettori) si fa tagliare a scrocco i capelli e, lo confessa senza reticenze, significa che il suo senso della cosa pubblica è davvero sul filo del rasoio. Sotto quel livello si è eticamente commendevoli, sopra no. Fosse questo il problema il disagio che noi avvertiamo sarebbe abbastanza semplice da spiegare. Galan ritiene che la frequentazione del barbiere di Montecitorio costituisca un oggettivo vantaggio per la sua persona nella sua funzione.  Ha torto Galan? Per cercare di capirlo immaginiamo la sua educazione politica e a quali autori si potrebbe essere ispirata. Andiamo a vedere uno dei primi testi dell storia del pensiero politico, dove, come noto c'è anche tanto altro, oltre alla politica, La Repubblica di Platone. Nei capitoli centrali il filosofo aristocratico ateniese illustra le caratteristiche di formazione dei guardiani, quelli chiamati a difendere o a governare la città. Come si seleziona per Platone la classe dirigente? O meglio, come si addestra? "Si deve cercare quali guardiani rispettino la norma loro propria, di dover fare di dover fare ciò che ritengano ciò che è meglio per lo Stato. Occorre perciò sorvegliarli fin da fanciulli e proporre loro opere che potrebbero far scordare assai facilmente tale norma e dare luogo ad inganni ; e si deve approvare chi la ricorda  e non è facile all'inganno, scartare invece chi lo è... E a chi superi le successive prove, nell'infanzia, nell'adoloscenza e nella maturità, e risulti integro si devono affidare il governo e la guardia dello stato"... . (Platone, La Repubblica . Libro III  413-414) Il curriculum di Galan parla chiaro: direttore centrale di Publitalia da giovanissimo, partecipa alla costituzione di Forza Italia nel 1993. Esercizi per convivere con l'inganno ne deve aver fatti. Il dubbio è uno solo: sta continuando a educarsi o è passato dal ruolo di educato a quello di educatore? In questo caso di certo andrà nei guai chi gli ha prestato il tesserino. Oppure il barbiere.

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8 settembre 2011 4 08 /09 /settembre /2011 23:43

Nella temperie di un momento personale difficilissimo riprendo a leggere e a scrivere qua e là. E mi viene da riflettere su una questione diventata quasi un canovaccio delle polemiche di questi anni. Chi è moderno e chi no nella politica italiana, rispetto le scelte sui temi del lavoro. Vediamone alcune: la nuova organizzazione a Pomigliano e Mirafiori, le delocalizzazioni, il nomadismo produttivo. La pretesa modernità, però, si configura sempre in soluzioni nuove che non toccano il ruolo dell'establishment al potere. E infatti è sempre il blocco storico dei partiti, delle forze sociali e degli interessi economici che guidano l'Italia o il mondo che, per rafforzare la loro posizione di dominio, sposano l'ideologia della modernità. E quante sono le comparse a colorare della loro presenza i dibattiti politici, economici, scientifici e filosofici! Gli economisti della voce.info e le loro battaglie sulla liberalizzazione del lavoro in nome della modernità, ad esempio. Non più salariati opposti al capitale, il loro Assoluto sarebbe impersonificato dai consumatori, gli oppressi di cui la sinistra avrebbe dovuto farsi carico. E quanta presunta modernità è narrata da personaggi tragici o ridicoli: il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, trombettiere delle ragioni dell'amministratore delegato della Fiat Marchionne, pronto a rottamare chiunque non sia moderno come lui. E poi i Sacconi, Bonanni e compagnia cantando.

 

Ma hanno ragione o torto a definirsi moderni? Marx dice di più: sono rivoluzionari. Rispetto ai modi di produzione storicamente inveratisi nel sistema attuale, il capitalismo prima giovane e rampante e ora maturo e soffocatore, ha una caratteristica unica: la dinamicità. Che lo porta ad abolire e a non considerare mai definitivo nessun processo di produzione. Dice testualmente Marx: "La sua base tecnica (del capitalismo, ndr) è rivoluzionaria".  E sostiene : "L'industria moderna non considera e non tratta mai  come definitiva la forma di un processo di produzione". Lo schema che permette al Capitale di aumentare l'accumulazione e con essa la propria capacità di dominio è semplice: utilizza le tecnologie e riassembla il processo di produzione in base a queste nuove tecniche e a nuove possibilità che la realtà storica offrono (vedi delocalizzazioni, sfruttamento immigrazione, etc.). Il suo carattere rivoluzionario è manifesto nell'agire. Ed è presente già nelle tre contraddizioni: nuova tecnica, nuova disciplina, ma vecchio modulo (divisione del lavoro).

 

Così si rende "naturale" un processo che invece è fortemente voluto dall'uomo e scontato nella sua valenza ideologica (il modo di rappresentare il pensiero di chi queste soluzioni produttive le ha evocate e volute o dei lori alleati storici) . Eppure quante volte abbiamo sentito ripetere che è naturale che certe cose non si facciano più in una data maniera, ma in un'altra, vista l'evoluzione della tecnica. Pomigliano, Mirafiori, Bertone, il lavoro si riorganizza in base alle esigenze del Capitale. La capacità di alternare tecniche e processi produttivi è la caratteristica di questo sistema. Più che dinamicità del capitalismo qui siamo proprio di fronte ad un carattere rivoluzionario del modo di produrre, perchè si sviluppa nel crepitare della battaglia per la produzione delle merci e di colpo sostituisce funzioni, competenze, pezzi di esperienza, materiali. Non è solo l'innovazione tecnologica. E' altro. Una caratteristica che nei modi di produzione pre-capitalisti non c'era. E' questa la modernità alla quale fanno riferimento gli alfieri del capitalismo moderno e che Marx aveva indicato nel Libro I del Capitale al capitolo XIII.  E quindi, una volta che le relazioni sociali sono intaccate da un nuovo modo di produrre, subentreranno le scelte di autocoscienza del capitalismo a propalare il diritto relativo alle nuove forme. Ecco i moderni, ecco la modernità. 

 

 Piccolo accorgimento del rivoluzionario ambito dei processi di produzione capitalisti: la divisione del lavoro non è scossa da questo vento rivoluzionario, resta quella di sempre. In effetti così può cambiare tanto (per bocca dei Renzi e degli Alesina), per non cambiare molto. E cioè: quello che conta rimane. da notare un'ultima cosa: i nostri corifei della modernità capitalista si dividono in due: quelli che sanno ciò che fanno e quelli che pensano di essere geniali innovatori al servizio degli oppressi. Liberarsi prima dei secondi e poi dei primi.

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  • Nato a Roma il 7-3-1962, giornalista
  • Nato a Roma il 7-3-1962, giornalista

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